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Così Enel ha scalato la vetta di Piazza Affari

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(shutterstock)

A dare una scossa alla Borsa italiana, inchiodata dalla crisi che non finisce mai sui livelli di dieci anni fa (nel frattempo l’indice Eurostoxx è cresciuto del 75% circa, l’americano Standard & Poor’s di tre volte) ci pensano loro, i titoli delle società di “pubblica utilità” che oggi rappresentano il settore leader di Piazza Affari di cui coprono un quinto circa della capitalizzazione, più del comparto bancario che, prima dell’emergenza spread era arrivato a rappresentare più di un terzo del mercato.

Merito delle qualità difensive del settore che però non bastano da sole a spiegare l’entità della scossa che Enel, il titolo più elettrico, ha dato al listino italiano, superando di slancio al vertice Intesa SanPaolo e la cugina Eni, oggi divisa da una forbice di valore che cresce ogni giorno di più, per merito dell’esplosione della multiutility: dal 20 giugno del 2017, quando Enel operò il clamoroso sorpasso sul cane a sei zampe, Eni resta inchiodato su valori di poco superiori ai 50 miliardi di capitalizzazione. Al contrario Enel, la multinazionale guidata da Francesco Starace, che opera in 34 mercati di cinque continenti, da allora continua a fare scintille: il 7 giugno scorso ha superato in Borsa la barriera dei 60 miliardi di capitalizzazione grazie all’avanzata del titolo a 5,89 euro (più 24%, circa il doppio della media del mercato).

Ma il rally non si è fermato lì: il titolo, superata di slancio quota 6 euro, vanta ormai una capitalizzazione di 63 miliardi di euro consolidando, circostanza rara per una blue chip italiana, la sua presenza nel gotha mondiale del settore. Già a marzo, infatti, Enel, numero uno europeo del settore, aveva conquistato il secondo posto a livello mondiale, sorpassando la texana Duke Energy. Solo il colosso della Florida NextEra Energy (98 miliardi di dollari di valore a Wall Street) separa il gruppo italiano dal primato assoluto. C’è un rischio bolla? Macché.

Nonostante la performance stellare il gruppo, zavorrato dal clima di sfiducia che frena le blue chips del Belpaese, continua a trattare a sconto con un rapporto prezzo/utili inferiore alla media (22 volte) e in particolare a Iberdrola, l’utility
spagnola che, così come ha fatto Enel sotto la gestione Starace, ha puntato con successo sullo sviluppo delle rinnovabili e sulla strategia “carbon free”: una scelta, assieme alla digitalizzazione delle reti, “utile, necessaria e conveniente” anche perché, ricordare il ceo, “a man mano che si decarbonizza, e quindi si usano meno combustibili fossili, le turbolenze geopolitiche con le relative ripercussioni sui prezzi delle commodities.

Il risultato? Basta un semplice calcolo per stimare che, solo a recuperare lo sconto sugli altri titoli del settore, Enel potrebbe aspirare a una capitalizzazione di 70 miliardi di euro. Nessun altra società italiana può vantare una valutazione simile a livello internazionale, tanto più impressionante perché stride con le ambasce dell’azionista di controllo, cioè il Tesoro italiano forte del 23,5% circa del capitale. Ma quali sono i segreti dietro a questa performance? E quanto durerà questa
straordinaria primavera che non riguarda solo Enel ma ha contagiato buona parte del settore ?

Le premesse sono positive. La buona salute dei titoli elettrici trae alimento dalla congiuntura finanziaria positiva, che promette di durare un bel po’. La corsa alle utility, infatti è sostenuta dal basso livello dei tassi, una circostanza destinata a durare almeno fino a tutto il 2020 come garantito da Mario Draghi nell’ultima riunione della Bce. Sotto la spinta delle scelte delle autorità monetarie nel corso degli ultimi mesi l’indice di settore segnala, dati di inizio giugno, un incremento superiore al 22% da inizio anno, una performance positiva più che doppia rispetto all’indice delle blue chips ma poco più della metà di quanto hanno messo a segno le utilities Usa quotate a Wall Street. Oltre ad Enel, hanno aumentato l’andatura altri cavalli di razza, da Hera (+34% da gennaio) ad Acea (+48%) a per citarne alcuni. Non è difficile capire il motivo di tanto favore: le utilities sono strutturalmente molto indebitate, perciò beneficiano, in caso di riduzione del costo del denaro, di un minor onere nel rifinanziamento del debito cui si accompagna la visibilità delle entrate, garantite dalle tariffe.

Un mix vincente come conferma il giudizio di Mediobanca Securities: “Privilegiamo – si legge in un recente report di via Filodrammatici –i settori con una bassa volatilità del cash flow, solidi bilanci e politiche affidabili sui dividendi. Riteniamo per questo che le utility come Enel ed Hera, entrambe coperte con rating outperform, stiano soddisfacendo tutti questi requisiti come la maggior parte del settore che prevede impegni espliciti sui dividendi chiaramente visibili”. Ma bastano i tassi bassi a spiegare l’appeal del settore agli occhi degli investitori? A ben vedere, il rally ha anche radici. Sempre Mediobanca Securities ci offre un’altra chiave di lettura del fenomeno. Nella lista delle Mid Cap preferite dagli analisti della banca d’affari due titoli su sei, infatti,  appartengono al comparto utility: si tratta delle multi utilities di Acea e Iren, entrambe giudicate outperform, in evidenza perché, vogliono aumentare la quota di separazione dei rifiuti ed il recupero di materiale dai rifiuti.

“La realtà è che lo stato di salute delle aziende dell’energia e dell’ambiente, sia in Italia che in Europa sta migliorando” spiega Andrea Gilardoni, docente di economia e gestione di imprese alla Bocconi e presidente dell’Agici, il centro di ricerca che cura il rapporto annuale sul settore. “Dopo anni dominati dal calo dei consumi e dalla contrazione dei margini le aziende che si occupano di energia (elettricità e gas) e di ambiente (acqua e rifiuti) le utilities sono state investite da una rivoluzione tecnologica che impone forti investimenti verso i nuovi modelli energetici delle rinnovabili, delle reti di distribuzione intelligenti, della mobilità elettrica e dei nuovi servizi collegati all’innovazione”. Uno scenario nel quale l’efficienza energetica sta diventando, a livello europeo, un volano di crescita e una sfida sempre più stringente e tale da
condizionare buona parte dei piani di spesa delle utilities e delle società impegnate nel business energetico.

Le vecchie utilities, per tradizione “ferme”, si sono trasformate in aziende assai “mobili”, e non solo per il ruolo strategico che si accingono ad interpretare per rendere possibile l’espansione dell’auto elettrica. Valga l’esempio di Sorgenia, la società elettrica ex Cir rilevata dalle banche nel momento peggiore della crisi dei consumi. Un’attenta politica dell’offerta rivolta ai consumatori più smart (che possono ottenere sconto molto rilevanti sulla bolletta sfruttando i bonus attivabili online) ha consentito all’azienda un risanamento a tempi record, tanto che le banche azioniste hanno già messo in cantiere la prossima asta (A2A tra i papabili). Il cambio di rotta ha ormai preso velocità al seguito di Enel, capace di cavalcare i benefici della transizione energetica sposando l’innovazione tecnologica che ha fortemente modificato i modelli del settore: meno grandi centrali che necessitano di una rete di distribuzione complessa, sì a centrali più piccole con una produzione locale limitata e dall’utilizzo più flessibile (i nuovi impianti, ha detto Starace, devono essere pronti ad entrare in produzione entro due anni).

Gli investimenti, intanto, si spostano sulle energie rinnovabili, inarrestabili anche se sono ormai agli sgoccioli gli incentivi, sempre meno necessari, mentre il mondo dell’energia si “de-carbonizza”. La multinazionale italiana ha senz’altro i
numeri in regola per rivendicare la leadership del fenomeno grazie a una una potenza installata in energie rinnovabili di 39 gigawatt (quasi il doppio rispetto ai 22 gigawatt di NextEra) peraltro in costante evoluzione come dimostra, ad esempio, la recente cessione in Brasile alla cinese CNG Energy di tre impianti per una capacità complessiva di 540 Megawatt (450 nel solare, 90 nell’eolico) per 600 milioni di dollari. per una capacità complessiva di 540MW (450MW solari, 90MW eolici). Un ‘operazione che rientra nella strategia di rotazione del portafoglio mediante il modello “Build, Sell and Operate” (BSO), che permette di liberare risorse a favore di nuovi investimenti, scelta obbligata vista la mole dei debiti, 41,5 miliardi di euro, il vero handicap che, visto il basso costo del denaro, non preoccupa comunque più di tanto. Ma la fame di quattrini è destinata a coinvolgere più o meno tutti gli attori, comprese le multi utilities regionali. “Non ci sono dubbi – sostiene Gilardoni – Le utility energetiche devono affrontare un importante ciclo di investimenti per la transizione verso un modello energetico più decentrato, lo sviluppo delle rinnovabili e l’impatto dell’innovazione. Saranno necessari investimenti importanti”.

Di qui la necessità di allettare gli azionisti con una politica di remunerazione degli investimenti generosa e sostenibile nel tempo, con cedole che nella recente campagna dividendi hanno consentito cedole superiori al 6% come nel caso di Enel che si è spinta a promettere una cedola minima garantita e crescente nel tempo (da 33 centesimi nel 2019 fino a 39 nel 2021). “Possiamo permettercelo – ha detto il cfo Alberto De Paoli – anche per il profondo cambio di business model che non è ancora pienamente “prezzato” dal mercato”. Anche per questo le “vecchie” utilities, un tempo rifugio di politici a fine carriera sono oggi corteggiate dalla grande finanza. “Un amico banchiere – rivela Gianni Tamburi di Tip– mi ha suggerito di estendere il nostro modello di investimento pensato per le medie imprese industriali al sistema delle utilities. L’idea è di creare una società apposito per valorizzare le aziende locali a guida pubblica e creare dei campioni da offrire sul mercato con vantaggio per tutti. La proposta è buona, ma temo che sia irrealizzabile:ci sono troppi appetiti politici”. “Non credo che
privatizzare – replica Gilardoni possa servire a rimuovere l’handicap dell’alto livello dei debiti. Anzi, succederebbe il contrario”. Ma la lottizzazione? ”E’ un mito che va sfatato. Negli ultimi anni, complice il forte cambiamento tecnologico, c’è stato una forte crescita di competenze, ad ogni livello”.

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