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La Taranto austriaca dove convivono acciaio, ambiente e occupazione. Grazie a un manager

(Shutterstock)

di Tommaso Carboni

Tra ex Ilva e relativo indotto rischiano di saltare 20mila posti di lavoro. Più di un punto e mezzo del Prodotto interno lordo italiano. Il bandolo di questo drammatico rebus è lo scudo penale garantito per portare a Taranto gli investimenti del gigante dell’acciaio ArcelorMittal. In un tira e molla piuttosto surreale lo scudo è stato prima cancellato, poi reinserito e pochi giorni fa di nuovo soppresso per voto di M5S, Renzi e PD. Il gruppo franco indiano ha reagito minacciando di andarsene. Per restare, tra le altre cose, chiede la reintroduzione dello scudo e l’avvio di un massiccio piano di licenziamenti, anche per adeguarsi al momento sfavorevole nelle vendite d’acciaio. In realtà, Mittal non può semplicemente staccare la spina e spegnere gli altoforni, perché la sua richiesta di risoluzione del contratto (come è spiegato qui) deve essere prima approvata dal tribunale competente. 

Lo scudo esisteva per proteggere Mittal (e la precedente amministrazione straordinaria) da indagini per reati ambientali. In sostanza, mentre procedeva l’opera di risanamento – e questa doveva avvenire nei tempi e nei modi previsti dal contratto d’acquisto – la multinazionale non poteva essere oggetto di avvisi di garanzia e sequestri per le condizioni non a norma lasciate da altre gestioni.

C’è da dire che molti analisti e commentatori si oppongono allo scudo, sostenendo che si tratta più che altro di un appiglio per procrastinare (o evitare del tutto) i lavori di bonifica. O addirittura di un dettaglio ormai irrilevante, visto che la multinazionale in ogni caso avrebbe già da tempo deciso di abbandonare Taranto.

Il rompicapo, in extremis, potrebbe comunque ancora risolversi. Si apre nei prossimi giorni un nuovo round di negoziati, e il governo sembra deciso a tentarle tutte pur di convincere la multinazionale a restare.

Ma al di là del risultato dei colloqui, che a questo punto ci si augura positivo, una domanda resta aperta: è davvero così difficile trovare un equilibrio tra produzione d’acciaio e tutela dell’ambiente? 

La risposta è no. Basta andare a Linz, in Austria, a pochi chilometri dal confine italiano. Lì c’è una storia simile all’ex Ilva di Taranto. Fabbrica e città quasi si confondono. Duecentomila abitanti e sei chilometri quadrati d’industria pesante stretta contro le rive del Danubio. La gente del posto chiama Voestalpine (questo il nome della fabbrica) la “città nella città”. Ha 80 km di strade, 160 di binari ferroviari, un servizio autobus per i dipendenti, una caserma dei pompieri, una chiesa e 13 ristoranti che servono 8mila pasti al giorno. L’aria è così pulita che una volta un gruppo di ingegneri in visita da Pechino ha domandato se per caso quel giorno l’azienda avesse bloccato gli impianti. Oggi Linz è la prima città industriale d’Austria e la seconda per aria più pulita. 

Come Taranto è passata attraverso profonde crisi e trasformazioni, a cui però è seguita una brillante rinascita. Negli anni Settanta la città era inquinatissima. La concentrazione di anidride solforosa era di 2000 microgrammi per metro cubo (per farsi un’idea, il limite EU oggi è di 120 microgrammi). Si moriva per inquinamento. Gli abitanti, esasperati, cominciarono a protestare. Chiedevano al management e alla politica un piano serio di tutela ambientale. 

Nel frattempo la Voestalpine gestita dallo Stato era diventata un’enorme corte dei miracoli con attività sparse un po’ ovunque (nelle spedizioni, nell’ingegneria, nei microchip, nelle pistole, nelle macchine da presa…) e bilanci sempre in rosso. A metà anni Ottanta fece quasi bancarotta, ma sopravvisse e cominciò un piano di revisione aziendale. C’era la spinta di Bruxelles e dell’influente partito verde austrico a ridurre in modo drastico l’inquinamento. 

Negli anni Novanta Voestalpine fu privatizzata (stessa sorte toccò all’Ilva, rilevata dalla famiglia Riva). Le cose andavano un po’ meglio, il futuro però non era certo roseo. E qui entra in scena Wolfgang Eder, ingegnere prestato al management, look fanciullesco, capelli tagliati alla Paul McCartney, e grande carisma e visione aziendale. Dal 1995 è nel consiglio d’amministrazione, viene eletto ceo una decina d’anni dopo.

Subito cerca di tenere insieme due mondi che paiono correre in direzioni opposte: da una parte il rispetto dell’ambiente con l’Europa che impone regole ben più stringenti, dall’altra la produzione, l’occupazione, il profitto. La svolta verde è stata combattuta ferocemente anche all’interno della stessa società. “Molte persone si sono infuriate quando abbiamo cominciato a discutere nuove regole di inquinamento. È stata una lotta enorme. Ma non avevamo altra scelta, dovevamo cambiare”, ha detto il manager in una vecchia intervista. E per cambiare furono investi miliardi di euro. Risultato: una fabbrica così pulita che oggi il traffico in città produce più polvere. “Siamo amici dell’ambiente come nessuno in Europa, probabilmente come nessuno nel mondo”.

E’ un’altra tuttavia la svolta per la quale Wolfgang Eder alla fine sarà ricordato. Un ribaltamento poco ortodosso, astuto, che ha decretato il successo di Voestalpine e ha reso Eder una delle figure più influenti nell’industria europea dell’acciaio. A metà anni 2000 la tendenza dei grandi gruppi era la produzione in larga scala. Aditya Mittal, oggi presidente di ArcelorMittal, sosteneva che per sopravvivere un’azienda avrebbe dovuto fondere almeno cento milioni di tonnellate l’anno.

Eder si mosse nella direzione opposta. Non aveva molto senso competere con giganti come Mittal nelle esportazioni di acciaio a basso costo per il boom edilizio in Cina. Il profitto stava invece nell’aumento della domanda di acciaio speciale ad alto margine delle industrie automobilistiche e aeronautiche in crescita in Europa. Ancora più ricco era il mercato delle attrezzature per ferrovie, automobili, e componenti di aerei. Voestalpine ha finito per specializzarsi in questi settori. E ha funzionato. Negli ultimi dieci anni i suoi margini al netto delle tasse hanno superato il 4%, rispetto al 2% di ArcelorMittal, all’1,8% di Thyssenkrupp e al -7,5% di Tata Steel Europe, i suoi principali concorrenti.

Ma nel 2019, come tutti i suoi rivali, anche lei ha preso una discreta batosta. Si aspetta una riduzione dei profitti di almeno il 17 per cento. Pesano i dazi di Trump, il calo dei prezzi dell’acciaio e i problemi dell’industria dell’auto tedesca, il suo maggior cliente. Quest’anno però Voestalpine ha anche aperto il suo primo impianto a Linz alimentato da idrogeno pulito anziché carbone. È un buon segno. Da Bruxelles è in arrivo un giro di vite sulle emissioni di anidride carbonica. E la società di Wolfgang Eder, che nel frattempo è andato in pensione, ha le carte in regola per assorbire il colpo. 

 

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