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Il sarto-manager che ha vestito case reali e primi ministri portando il made in Italy nel mondo

Sin da bambino, Angelo Inglese ha respirato l’aria del know-how sartoriale. I lunghi pomeriggi trascorsi nel retrobottega della sartoria di famiglia con la nonna che cuciva camicie con le sue macchine Singer, il profumo del vapore del ferro da stiro sui tessuti: ricordi mai sbiaditi che, nel corso degli anni, hanno convinto l’imprenditore pugliese a proseguire quel business e dargli nuova linfa.

“Quella che successivamente è diventata formazione, nel periodo infantile era insolita curiosità; mi piaceva osservare i  clienti, imparavo a distinguere il loro carattere, il modo di fare, mi stupiva la cordialità e il grado di confidenza che instauravano con mio padre”, spiega Inglese. Mentre racconta la sua storia procede spesso per immagini ben definite, sullo sfondo la bellezza e i tesori di Ginosa, piccolo paese di provincia a metà strada tra Taranto e Matera. “Non potrò mai dimenticare la radiolina sempre accesa, il gesso che tracciava i tessuti da tagliare e le macchine da cucire a pedali che li trasformava in abiti e camicie”. In poche parole, tanta convivialità,  parola che “nel sistema economico di oggi purtroppo significa lentezza del lavoro… A me invece ricorda la bottega, un luogo magico e di trasmissione del sapere artigianale”.

Quando venne a mancare il padre, Angelo, terza generazione di una dinastia di sarti di Ginosa di Puglia, aveva solo vent’anni e in quel momento l’azienda rischiò di chiudere i battenti. “Zii e cugini non volevano continuare l’attività e cosi decisi di rilevare tutto: sarebbe stato da irresponsabili far morire quella che per me era un pò un’istituzione, una storia di famiglia nata nel 1955 alimentata da tanti sacrifici…”. Da allora, ne è passata di acqua sotto i ponti e con la stessa resilienza degli inizi, l’azienda ha conquistato una fama internazionale, portando il made in Italy oltre i confini nazionali.

(store.g-inglese.com)

I suoi abiti hanno letteralmente fatto il giro del mondo, vestendo celebrities e varcando persino la Casa Bianca con personaggi di spicco politico e persino le famiglie reali: “Mi capita spesso di fermarmi  a pensare a quanto fatto personalmente per l’azienda e a tutto quello che le orbita intorno. Mi gratifica il pensiero di continuare a scrivere la nostra storia, esportandola con orgoglio in ogni angolo del mondo. Ed è quel tipo di soddisfazione che va oltre ogni concetto di profitto e fatturato”. Secondo Inglese, la ricetta per mantenere il successo, anche a lungo termine, è una sola e consiste nel rimanere sempre vicini ai clienti e lavorare costantemente con l’intento di rivoluzionare il concetto classico di moda e sartoria senza dimenticare mai i valori della tradizione.

La stessa tradizione che oggi la nuova generazione sembra aver dimenticato. Come mai? “C’è poca sensibilizzazione sul tema, i giovani sono attirati da altre discipline che tante volte fanno fatica a portare a termine. La discriminazione dei mestieri da artigiano è retaggio di generazioni passate che li imponevano a chi non riusciva nello studio teorico”, spiega l’imprenditore, che suggerisce, per un efficace cambiamento di rotta e mentalità un impegno, anche da parte delle forze politiche.

Ad apprezzare le lavorazioni sartoriali del marchio è stato soprattutto il Giappone. “Correva l’anno 2003 ed ero affascinato dal mercato giapponese. Di notte inviavo video e foto che dimostravano il nostro insolito modo di lavorare e ricamare a mano. Trovai loro molto entusiasti, tanto da chiedermi subito un incontro a Firenze in occasione di Pitti Uomo. Ero molto preparato sul prodotto e un po’ meno sulla loro modellistica ma gli piacquero talmente tanto i nostri prodotti che li ordinarono ugualmente”.

Il suo team inizia a lavorare sulla vestibilità dei capi e le camicie iniziano a popolare i più importanti department store del Paese. Si verificano, negli anni, anche aneddoti divertenti legati alla notorietà che il brand aveva raggiunto anche all’estero. Come quello dell’ex premier, loro abituale cliente, che in una occasione aveva indossato una camicia dal dubbio gusto estetico, che in tanti  pensarono fosse stata realizzata dall’azienda pugliese. In gergo moda questo si potrebbe chiamare fashion disaster. E così prima la stampa giapponese, poi quella inglese e americana, e infine quella italiana caddero nel tranello, fu un vero e proprio incidente diplomatico.

Una realtà tradizionale, che non trascura i cambiamenti messi in moto nell’industria dallo scoppio della pandemia: “Ci affascina l’evoluzione digitale, l’emozione di fare vivere anche a distanza un’esperienza speciale  legata al nostro mondo; un format  diffuso attraverso una transizione innovativa, fatta da remoto. Poterci confrontare con clienti appassionati, semplici curiosi e turisti è stata però da sempre la nostra prerogativa e mi rincresce che in questo periodo dovremo farlo solo attraverso un monitor”.

Ma la bellezza, si sa, è capace di oltrepassare anche i confini virtuali e l’impegno sarà giocare bene questa partita, coniugando l’heritage con la nuova creatività dettata da internet. “L’export per noi vale l’80% dell’intero fatturato e si distribuisce in diverse nazioni. Il mio grande sogno sarebbe quello di rafforzare la presenza del nostro brand sul mercato cinese”, conclude Inglese.

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