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Più donne al vertice: cosa sta cambiando davvero in Italia e cosa serve ancora

Le donne sono state assenti per centinaia di anni dalle posizioni apicali, che siano di governo, di imprese o altro. Da anni organizzazioni internazionali, governi e imprese lavorano per invertire questo trend, con policy mirate a creare lo spazio e il percorso per una parità di genere all’interno del mondo lavorativo fino ai ruoli apicali.

E i risultati si iniziano timidamente a vedere: in Italia, da pochi giorni, abbiamo rotto il nostro pessimo track-record di non aver mai avuto una premier, continuiamo ad avanzare nella parità di genere dei consigli di amministrazione – con il 38,8% di posizioni dei cda ricoperti da donne a fine 2021 – avanzamento dovuto alle quote della legge Golfo-Mosca. E iniziamo ad avere le prime donne ceo (al 2021 ancora meno del 3%).

Quello che abbiamo visto finora è stato un processo di ascesa graduale delle donne all’interno dei sistemi e delle culture organizzative esistenti. Una sorta di corsa a ostacoli insieme agli uomini, ma sul campo di corsa tracciato da chi ha detenuto il potere per le ultime centinaia di anni. Secondo una ricerca pubblicata negli Stati Uniti da Lean In e McKinsey, The Great Break-Up, qualcosa sta però cambiando.

Donne al vertice: cosa sta cambiando davvero

Le donne, soprattutto le poche arrivate ai livelli apicali, stanno lasciando le loro aziende in numero molto più alto rispetto ai colleghi uomini. Non per uscire dal mondo del lavoro, ma per trovare aziende e posti di lavoro più in linea con quello che cercano.

Insomma, invece di continuare una corsa a ostacoli in un campo che le sfavorisce e non risponde ai loro bisogni, preferiscono cercare nuove opportunità e cambiare campo. 

Discriminazioni, micro-aggressioni e burn-out per le donne leader

La ricerca dimostra come le donne leader negli Stati Uniti subiscano quotidianamente micro-aggressioni volte a diminuire la loro autorità. Le leader hanno il doppio di possibilità rispetto a un uomo di essere scambiate per una persona junior, e il 37% di loro (vs. il 27% degli uomini in posizioni comparabili) ha visto colleghi prendere credito per le loro idee. 

Le leader investono inoltre il doppio del tempo rispetto a un collega uomo nella promozione della diversity, equity & inclusion, ma questo lavoro spesso non viene riconosciuto nelle fasi di valutazione. Il tutto si aggiunge alla disparità nei lavori di cura, fuori dall’azienda, e ai tanti altri ostacoli che le donne continuano ad affrontare in azienda, primo tra tutti il pay-gap. 

Tutti fattori con conseguenze tangibili, come si riflette nelle percentuali di burn-out molto più accentuate tra le donne (43%) che tra gli uomini (31%) americani in posizioni di leadership. Un campanello di allarme per la salute mentale, a cui governi e aziende ancora non prestano l’attenzione necessaria.

“Me ne vado”: le leader di oggi sono pronte a dire basta

Insomma, questi dati indicano un cambiamento di rotta negli Stati Uniti. Un cambiamento che si spera porterà a una ri-definizione dello status quo a medio/lungo termine ma che, a breve termine, rimane preoccupante, visto il tasso con cui si stanno perdendo i pochi profili di donne ai livelli apicali, accentuando  lo squilibrio di genere. 

Inoltre, come spiegato nello studio, se le aziende non agiscono passando tramite una vera ridefinizione delle loro culture lavorative, non solo rischiano di perdere le loro leader, ma anche la futura generazione di donne leader che, dati alla mano, sono ancora più ambiziose e danno ancora più importanza a un ambiente lavorativo equo, inclusivo e solidale.

Anche loro sono pronte a seguire l’esempio delle loro manager, lasciando le aziende che non rispettano questi criteri e che le obbligano a continuare in una corsa a ostacoli creata a misura del sesso opposto.

E l’Italia? Pochi dati ma trend simili

Il primo dato, che parla da sé, è che in Italia non esistono dati e studi di questa portata per poter analizzare la situazione in modo comparabile agli Stati Uniti. Si parla di parità di genere, ma le ricerche o i dati pubblici aziendali sulla micro-aggressione, i burn-outs e le discriminazioni rimangono limitati.

Ricostruendo però i dati esistenti, possiamo dedurre che i trend italiani sono simili a quelli americani. Dati da un’indagine del 2017, condotta in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, evidenziano anche in Italia una prevalenza di stress da lavoro tra le donne, dovuta a discriminazioni al lavoro e in casa, a culture lavorative non inclusive, alla persistente disparità di genere nella crescita professionale e al pay-gap.

Una ricerca di Bain & Company, The Working Future, indica che il 64% dei lavori italiani under 35 si sente sopraffatto o sotto stress, una percentuale molto più alta rispetto agli over 35, e che oltre il 40% dei lavoratori/lavoratrici italiane si dice insoddisfatta/o della propria professione. A questo si aggiungono i dati dell’ultimo biennio di Covid: dal famoso dato Istat del dicembre 2020, in cui il 99% delle persone che avevano perso il lavoro erano donne, al dato dei 42mila neo-genitori (di cui oltre 32mila erano donne) che si sono licenziati nel 2020.

“Confermo che i dati in Italia sono carenti su molti di questi fronti”, spiega Paola Profeta, professoressa di Economia Pubblica alla Bocconi e direttrice del centro di ricerca AXA sulla Gender Equality. “Ma dato che viviamo in un Paese con una cultura dominante stereotipata e conservatrice, più di quella americana o della maggior parte degli altri Paesi europei, possiamo ipotizzare che la situazione nel nostro Paese sia più preoccupante”.

“Ad esempio il discorso dei non-promotable tasks, quindi di tutte quelle mansioni che le leader donne svolgono in azienda senza che vengono riconosciute nel momento della valutazione, dovrebbe essere chiarito e investigato in Italia, invece per ora se ne parla a pena. Serve uno sforzo delle aziende e delle istituzioni per far sì che questi dati vengano raccolta e messi in comune: con i dati alla mano potremmo poi intervenire a livello di policy pubbliche e private per arginare questo fenomeno, che penalizza le donne e incide negativamente sulla loro carriera”.

Il momento di svolta: o si cambia o si torna indietro

Insomma, l’Italia e il resto del mondo devono rimboccarsi le maniche per non perdere il progresso registrato finora. Dalle aziende al nuovo Governo, serve raddoppiare l’impegno e rifocalizzarlo non per far semplicemente progredire le donne negli schemi esistenti, ma per cambiare gli schemi, il sistema e la cultura lavorativa. E far sì che uomini e donne possano crescere in modo equo e funzionale per tutte e tutti. 

Il punto di inizio è davanti ai nostri occhi, basta ascoltare le richieste e difficoltà delle tante donne, a livelli più o meno senior, e venirgli incontro. Ecco in che modo:

  • Aumentare la flessibilità lavorativa, in termini di luogo, orari e in termini del focus sui risultati e non sulle ore. Questo è un modo efficace per assicurare il benessere dello staff, aumentare la ritenzione, e anche permettere soprattutto alle donne di prendersi pause dall’alto livello di micro-aggressioni di cui sono vittime in ufficio.
  • Dare più supporto e training a livello manageriale. Quando le aziende, tramite i loro manager, riescono a creare una cultura lavorativa equa e inclusiva, il tasso di ritenzione aumenta. Bisogna quindi riconoscere il tempo investito dai/dalle manager nella gestione e nella crescita dello staff e valutare i loro risultati in termini di diversity & inclusion, rendendoli criteri di valutazione e incentivi per la promozione.
  • Investire sul training dello staff, soprattutto degli uomini, per combattere la persistenza di micro-aggressioni, che generano burn-out e perdita di talenti, facendoci fare passi indietro invece che avanti sulla parità di genere.
  • Creare una cultura lavorativa che premia le/i leader del futuro, a tutti i livelli di carriera. Avendo quindi la lungimiranza di supportare e promuove le persone, in molti casi sono i/le giovani, che hanno il coraggio di proporre modi di lavorare al di fuori dei vecchi schemi, capaci di immaginare il futuro lavorativo invece che di omologarsi al presente, di mettere in questione lo status quo e di guidare la transizione delle aziende verso una cultura lavorativa equa, innovativa, inclusiva e sostenibile che, a oggi, manca ancora in troppe aziende del nostro Paese.

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