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La partita aperta della (nuova) possibile ascesa di Trump

Articolo di Graziella Romeo, (associato di Diritto costituzionale comparato,  Università Bocconi) e Arianna Vedaschi (ordinario di diritto pubblico comparato, Università Bocconi e autrice, insieme a Mario Patrono, del libro Donald Trump e il futuro della democrazia americanaBocconi University Press, 2022)

La notizia della vittoria di Donald Trump alle primarie dell’Iowa e del New Hampshire è piombata in  un contesto politico-costituzionale quantomeno caotico. Basti dire che, poche settimane prima dei successi elettorali dell’ex Presidente, l’Alta Corte del Colorado e l’ufficio di garanzia elettorale del Maine avevano dichiarato Trump incandidabile per il suo coinvolgimento nei fatti di Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Entrambe le pronunce sono ora in appello, perciò è presto per conoscere il destino della candidatura di Trump nei due Stati. Tuttavia, se la campagna per le primarie dovesse regalare altre vittorie all’ex presidente, ogni eventuale decisione giudiziaria che annullasse la volontà del popolo sovrano esporrebbe la democrazia statunitense a inedite tensioni politiche.

Proprio la consapevolezza delle ripercussioni di una decisione di questo tipo – che rischierebbe di essere letta come l’esautorazione dell’avversario politico del Presidente attualmente in carica – ha sinora scoraggiato molti commentatori dall’attribuire alle vicende giudiziarie un peso determinante nella campagna presidenziale. Eppure, larga parte della dottrina americana insiste sulla rilevanza politica e giuridica dei dubbi che aleggiano sul caso Trump.

Una questione costituzionale

Se si osserva dal solo punto di vista del diritto costituzionale, la questione sollevata dalla candidatura dell’ex Presidente non può essere facilmente archiviata dalla mera constatazione dell’ampio supporto popolare di cui sembra godere. Esistono diverse clausole costituzionali che pongono non pochi problemi alla nuova ascesa trumpiana.

In un primo momento e cioè nelle settimane successive al 6 gennaio, sia il Congresso sia i giuristi americani avevano ragionato sulla possibilità di invocare la sezione 4 del XXV Emendamento e, sull’assunto dell’incapacità di Donald Trump di esercitare i poteri e attendere ai doveri richiesti dal suo ruolo, rimuoverlo dalla carica, finanche solo per i pochi giorni restanti prima della successione di Biden. Presumibilmente in considerazione della transizione politica in corso e soprattutto per evitare la definitiva delegittimazione del Presidente sostenuto dal partito repubblicano, l’allora vicepresidente, Mike Pence, escluse con fermezza l’opzione della rimozione.   Così, l’arma potentissima del XXV Emendamento venne (almeno momentaneamente) abbandonata nella convinzione che altre strade fossero percorribili, tra queste l’impeachment o la responsabilità penale, anche dopo la cessazione della carica.

A tre anni di distanza, l’argomento sul quale poggia la tesi dell’incandidabilità è fondato sulla clausola del XIV Emendamento che espressamente vieta l’accesso ai federal offeces a coloro che si siano macchiati di “ribellione o insurrezione”. E sebbene, peraltro come prevedibile, gli avvocati dell’ex Presidente insistano sulla estraneità di Trump ai fatti di Capitol Hill, secondo i giudici del Colorado esistono invece elementi sufficienti a provarne il coinvolgimento.  Inoltre, sempre secondo l’impianto difensivo, la carica presidenziale non costituirebbe un federal office, termine riferibile ai funzionari federali, ma non a quelli apicali.

Invero, l’incandidabilità di Trump è altresì sostenibile facendo leva sul XXII Emendamento che, se interpretato in chiave sistematica agli altri principi fissati dalla Costituzione, escluderebbe una seconda rielezione non consecutiva del candidato che ha completato un mandato presidenziale.

Il fronte politico

In parallelo, sul piano politico, nel procedimento di impeachment avviato una settimana dopo il riot di Capitol Hill, il Senato si è pronunciato per la colpevolezza di Trump. Tuttavia, la maggioranza coagulatasi a favore della responsabilità presidenziale, non ha raggiunto quella qualificata, pari ai 67 voti necessari per confermare l’impeachment presidenziale. Del resto, non vi sono dubbi sul fatto che anche i detentori delle cariche politiche apicali siano riconducibili ai federal offices.

É in questo orizzonte politico-costituzionale che si dovrà pronunciare la Corte Suprema federale, chiamata a decidere se i giudici del Colorado abbiano o meno commesso un errore di diritto nel sostenere l’incandidabilità dell’ex Presidente, sulla considerazione del suo coinvolgimento nelle attività insurrezionali del 6 gennaio 2021, in chiaro contrasto con il giuramento di fedeltà alla Costituzione, reso il 20 gennaio 2017 come “officer of the United States”. L’entrata in gioco della Corte Suprema potrebbe complicare la partita. Il collegio è composto da una maggioranza conservatrice le cui posizioni – al netto di ogni considerazione sulla vicinanza politica a Trump – si assestano ormai da tempo sulla valorizzazione massima della volontà popolare.

Questa Corte ha sostenuto in più occasioni la necessità di evitare forme di attivismo che, con il pretesto dell’esercizio di un potere contromaggioritario, finiscano per smentire o mettere in discussione i risultati del processo politico e, dunque, del voto. Orbene, benché risulti impossibile pronosticare con certezza l’orientamento della Corte, è però plausibile, anche in considerazione del delicato equilibrio elettorale del momento, attendersi un atteggiamento politicamente cauto. Altrettanto plausibile è ritenere che l’eventuale candidatura e vittoria di Trump non chiudano la saga, ma anzi riaprano il dibattito sul XXV Emendamento, se non portino ad un nuovo tentativo di impeachment, qualora le responsabilità dell’ex Presidente fossero accertate.  In ogni caso, le recenti vicende americane costringono a riflettere sulla tenuta del modello democratico che per anni si è offerto come esempio per il mondo.

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