Cultura

King Krule e l’attesa della creatura sommersa

King Krule (a destra), 23 anni.

Nel mappamondo di King Krule c’è un angusto ristorante dim sum di New York, che a settembre Archy Marshall – questo il suo nome anagrafico – ha scelto per presentare a sorpresa i brani del suo nuovo album uscito a ottobre. Un’ora di concerto dark in senso musicale e fisico, visto che l’unica luce arrivava dai lampioni e dai cartelloni pubblicitari di Broadway, al di là delle vetrate.

In Marshall – che oggi ha 23 anni – il divario creativo tra musica, persona e personaggio sfuma: metà è l’asfalto di una strada a sud di Londra, metà il legno raffinato della boiserie di un salotto bohémien. Con i suoi divorziati da quando era bambino, è cresciuto facendo la spola tra due case – quella della madre, serigrafa e musicista che compone brani a metà tra dub e jazz, e quella del padre, che lavora come art director ed è anch’egli un musicista appassionato di rock: “Chiunque nella mia famiglia può creare qualcosa usando carta e penna e poi venderlo”, raccontava Marshall al New York Times. “Ma non lo vendono”.

King Krule è così: golden boy consapevole da quando ha quindici anni, ma senza la fretta di vendersi. Ancor prima di essere incensato dalle principali riviste musicali d’Europa dopo l’uscita del suo primo LP, 6 Feet Beneath The Moon (2013), rifiutò di apparire sulla copertina di un famoso magazine (“non me lo sono guadagnato”, spiegò) e disse no a una collaborazione in studio con Kanye West. Marshall è rimasto sfuggente come la sua musica—che infila hip hop, punk, free jazz e spoken word nelle pieghe di un lenzuolo oscuro, ansiogeno, romantico.

Inafferrabile: prima del suo unico concerto italiano di stasera ai Magazzini Generali di Milano, organizzato da Comcerto e sold out da un mese, non rilascerà interviste. Mutevole: prima che il suo ciuffo rosso diventasse di King Krule, era stato ‘indossato’ anche da DJ JD Sports, Edgar the Beatmaker e Zoo Kid, i suoi vecchi monicker. Ma anche ora che lo “zoo” si è ribaltato nel palindromo “ooz” – titolo del suo secondo e ultimo disco, The Ooz, per i magazine di settore tra i migliori del 2017 – resta la sensazione di continuità tra la produzione di un tempo e quella di oggi, una coerenza stilistica e di contenuto – comunque arricchitesi di complessità crescenti a livello sonoro e compositivo – rarissima a questa età.

Il disco è un’immersione in apnea di 66 minuti e 14 secondi, dove nelle sue parole “il realismo sociale diventa surrealismo sociale”, e rafforza quella contrapposizione tra approccio underground e cultura pop ben riassunta dal verso dell’iniziale Biscuit Town: “he left the crime scene without the Motorola / still had dreams of being young Franco Zola”. La musica di Marshall è per esploratori: come ha scritto Pitchfork, “ascoltarla è come aspettare che una creatura marina emerga in superficie: la intravediamo di sfuggita prima che sparisca di nuovo”.

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