“Le dissi che non volevo a nessun costo lavorare per qualcun altro. Volevo costruire qualcosa che fosse mio, qualcosa da poter indicare e dire: l’ho fatto io. Era l’unico modo che conoscevo per dare un senso alla vita”. Il senso, Phil Knight, imprenditore statunitense in pensione dal 2016, l’ha dato quando decise di fondare Nike insieme al suo ex allenatore di atletica Bill Bowerman, e trasformando così il modo in cui gli atleti avrebbero corso, si sarebbero formati e avrebbero saltato per generazioni. Dal viaggio giovanile intorno al mondo alla creazione della prima società, la Blue Ribbon Sports – che importava scarpe giapponesi Onitsuka e le rivendeva negli Stati Uniti -, dai primi dipendenti e soci ai primi negozi aperti nel Paese, dalle lotte per accaparrarsi le star dello sport come testimonial alla sfida con Adidas, dai problemi di liquidità finanziaria a quelli più personali: il percorso imprenditoriale di Mr. Knight viene raccontato in prima persona e in maniera appassionata nel suo libro autobiografico L’arte della vittoria (edito in Italia da Mondadori).
Oggi Nike è un gigante dell’industria dell’abbigliamento sportivo con un fatturato annuo da 34 miliardi di dollari, oltre 74mila dipendenti e uffici in 52 Paesi in tutto il mondo. Il logo – “Che diavolo è uno swoosh? La risposta mi uscì da sola: è il rumore di qualcuno che ti supera” – è tra i più noti al mondo e 18° tra i marchi più ricchi di tutto il mondo. E a Phil Knight, 80 anni, 28° uomo più ricco al mondo, Forbes stima un patrimonio netto di 33,5 miliardi di dollari. Ecco alcune lezioni che si possono imparare dal suo successo professionale.
1. “Se la mia vita doveva essere tutta lavoro e niente gioco, volevo che il mio lavoro fosse un gioco”
Ovviamente, grazie alla natura della stessa Nike, nel caso di Phil Knight considerare il lavoro come un gioco poteva risultare più facile rispetto a molti altri. Knight ha cominciato come contabile in alcune imprese tra cui Price Waterhouse. Ma qualcosa lo spingeva altrove. “Non che la odiassi; era solo che non mi rappresentava. Volevo quello che tutti vogliono. Essere me stesso, a tempo pieno”. Fu così che unì la passione per l’atletica leggera e lo sport con il suo spirito imprenditoriale fondando la Blue Ribbon Sports, nel 1964, diventata Nike sette anni più tardi. Il suo team era composto da coloro che “non si adattavano alle stupidaggini aziendali. Quelli che volevano fare del lavoro un gioco. Ma anche dargli senso”. Le riunioni del team erano soprannominate Buttface (“facciadaculo”): “Coglieva l’atmosfera informale di quei ritiri, dove nessuna idea era così inviolabile da non poterla dissacrare e nessuno era così importante da non poterlo ridicolizzare, ma riassumeva anche lo spirito, la mission e la cultura aziendale. […] Cameratismo, lealtà, gratitudine. Persino amore”. A volte le riunioni proseguivano fuori dagli uffici, in un bar chiamato Nido del Gufo in cui discutevano “fino allo sfinimento, parlando tutti insieme, un rito corale di nomi e dita puntate, il tutto reso più rumoroso, divertente e a volte anche più chiaro dall’alcol”.
2. “Non dire mai alle persone come fare le cose”
Sono molte le regole infrante da Nike nella gestione tradizionale di un’azienda che prima di tutto ha imparato a farsi le ossa sul campo; a volte sbagliando o percorrendo strade meno battute. Emblematica una conversazione con il suo primo dipendente Johnson che veniva sballottato di frequente in tutto il Paese per seguire i piani audaci di Knight: “«È la cosa più folle che abbia mai sentito» commentò. «A prescindere dalla scomodità, a prescindere dalla follia di trascinarmi di nuovo sulla East Coast, ma che ne so io di come si dirige una fabbrica? Non saprei da che parte cominciare». Mi misi a ridere. Risi e risi. «Non sai da che parte cominciare?» Dissi. «Non lo sai? E quando mai qualcuno di noi l’ha saputo? »”. Eppure anni dopo, un famoso docente di economia aziendale della Harvard che studiava il caso Nike, racconta Knight, giunse a questa conclusione: “«Di solito» disse «quando un manager di un’azienda è in grado di ragionare sia tatticamente sia strategicamente, il futuro dell’azienda è in buone mani. Ma lei è veramente fortunato: più di metà dei Buttface ragionano così!»”. A Knight piaceva anche riassegnare i ruoli in azienda spostando un dipendente dal dipartimento legale al marketing, “per toglierlo dalla confortevole routine del lavoro, come amavo fare di tanto in tanto con tutti per evitare che si adagiassero”. Ma soprattutto: “Non dire mai alle persone come fare le cose. Dì loro cosa fare e ti sorprenderanno con la loro ingegnosità”.
Non solo di profitti vive un’azienda
La cultura d’impresa di Knight può sembrare banale, ma come non condividerla? “Mi rendo conto che per alcuni fare affari significa perseguire il profitto a oltranza, punto e basta, ma per noi, dire che il nostro solo scopo era fare soldi era come dire che il solo scopo di un essere umano è produrre sangue. […] Come tutte le grandi aziende, anche noi volevamo creare, contribuire, e avevamo il coraggio di gridarlo. Quando fai qualcosa, quando migliori qualcosa, quando fai nascere qualcosa, quando aggiungi una cosa o un servizio nuovo alla vita degli altri, rendendoli più felici, o più sani, o più sicuri, o migliori, e quando lo fai in modo in incisivo ed efficiente, in modo brillante, nel modo in cui si dovrebbero sempre fare le cose – anche se è raro che sia così -, partecipi con maggiore pienezza al grande dramma di tutta l’umanità. Anziché vivere e basta, aiuti gli altri a vivere più pienamente, e se questo è fare affari, bene, allora chiamatemi un uomo d’affari”.
Seguire la propria vocazione
Knight chiude la sua autobiografia con alcuni suggerimenti per tutti quei giovani che vogliono fare impresa. “Direi a quelli che non hanno ancora trent’anni di non accontentarsi di un lavoro, di una professione, e neppure di una carriera. Di cercare una vocazione. Anche se non sanno cosa significa, la devono cercare. Seguendo la propria vocazione, la fatica sarà più facile da sopportare, le delusioni fungeranno da carburante, e proveranno soddisfazioni mai provate prima. […]. E quelli che invitano gli imprenditori a non rinunciare? Sono ciarlatani. A volte devi rinunciare. A volte, sapere quando rinunciare, quando provare qualcos’altro, è un colpo di genio. Rinunciare non significa fermarsi. Non fermatevi mai”.
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