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Il documentario di Netflix con Gay Talese è la storia di due voyeur

Gerald Foos e Gay Talese in Voyeur.

Se ci fosse un registro ufficiale delle città più sociopatiche d’America, Aurora, Colorado, 325mila abitanti a poca distanza da Denver, ne occuperebbe un posto speciale. Qui nel 2012 James Holmes, venticinquenne affetto da disturbi mentali, ha aperto il fuoco in un cinema che proiettava la prima de Il cavaliere oscuro – Il ritorno, il Batman di Christopher Nolan, uccidendo 12 spettatori paganti. La voce della pagina Wikipedia di Aurora dedicata al massacro nota: “Gli eventi hanno segnato un punto di svolta in termini di riconoscimento e percezione pubblica della città: invece di riferirsi al luogo dei fatti come «Denver» o «hinterland di Denver», come sarebbe stato tipico fino ad allora, praticamente tutte le cronache dell’esecuzione hanno inequivocabilmente indicato «Aurora» come suo luogo di svolgimento”.

Eppure in precedenza, e per tanti anni, un altro uomo aveva reso Aurora un posto eccezionale: Gerald Foos, oggi ottantatreenne, negli anni ’60 ha acquistato un modesto motel della zona, il Manor House, per spiare i suoi ospiti tramite i condotti d’areazione delle camere, opportunamente modificati in combutta con la moglie Donna. Poi, un giorno di gennaio del 1980, ha sentito il bisogno bruciante di raccontare la sua storia. Foos non si è rivolto a una penna qualunque: il destinatario della lettera in cui confessava per la prima volta la sua passione segreta recitava “Gay Talese”, l’istrionico padre del New Journalism, il decano della nonfiction che ha reso grandi le riviste americane più influenti. Da quella lettera è nato un rapporto personale intenso – un’amicizia, si potrebbe dire – e quindi, trent’anni dopo, un libro che racconta la vicenda, The Voyeur’s Motel (in Italia Motel Voyeur, uscito nel gennaio scorso per Rizzoli nella traduzione di Francesco Pacifico).

In questi giorni Netflix ha riacceso i riflettori sulla joint venture Foos-Talese rilasciando Voyeur, un documentario che segue i due uomini a partire dal 2013 – anno in cui il secondo ha convinto il primo a permettergli di scrivere del suo passato – fino alle settimane seguite alla pubblicazione del libro. Voyeur, diretto da Myles Kane e Josh Koury, si apre con un avvicinamento: da una parte Foos, un uomo robusto e impacciato dall’aspetto trasandato, comunissimo, dice che non gli importa se il mondo lo considererà un peeping Tom, un mero guardone. Quel che conta è che possa “raccontare a qualcuno” la sua impresa.“Non volevo morire sapendo che sarebbe stata persa per sempre”, come le celebri lacrime nella pioggia; dall’altra l’inappuntabile Talese commenta i suoi appunti sul caso e dichiara: “È naturale che mi trovi a scrivere di un voyeur, perché sono un voyeur io stesso”. Quale grande giornalista e narratore non ha un rapporto ai confini col morboso con le vicende che sceglie?

Il Manor House Motel ad Aurora, Colorado.

Ma le affinità elettive tra Foos e Talese, quasi coetanei, non si limitano alla curiosità per gli altri. Uno dei più grandi scrittori americani viventi, che ha fatto dell’eleganza sartoriale il suo marchio di fabbrica, che vive in una sfarzosa brownstone dell’East Side e frequenta il gotha dell’intellighenzia newyorkese, ha molto più da spartire con un Average Joe di periferia di quanto ammetterebbe mai: entrambi hanno modi disinibiti, una passione archivistica ossessiva (Foos per le bambole e le carte del baseball, Talese per la sua sterminata produzione giornalistica), una moglie coinvolta in operazioni controverse a sfondo sessuale (Talese ha pubblicato Thy Neighbor’s Wife, un acclamato resoconto in prima persona della rivoluzione del sesso degli anni ’70, nel 1980) e, soprattutto, desiderano l’affermazione e il riconoscimento personale. Non vogliono soltanto guardare, ma anche essere guardati.

Voyeur è la storia di un’amicizia asimmetrica: Foos spedisce a Talese i quaderni zeppi di dati in cui per decenni ha annotato i rapporti sessuali consumati nel suo hotel, raccontandosi di essere un Alfred Kinsey autodidatta ma ammettendo, nel contempo, di farlo per il proprio piacere personale. Talese, dal canto suo, è ansioso di mettere nero su bianco la vicenda e renderla un’opera memorabile e, prima di scoprire alcune discrepanze nei racconti del suo protagonista (due settimane prima dell’uscita del libro, Talese dirà al Washington Post che la sua credibilità è “down the toilet” dopo aver scoperto che l’uomo ha mentito sugli anni in cui è stato proprietario del motel), ne solletica ego ed atteggiamenti vanagloriosi. Foos è costantemente alla ricerca dell’approvazione del celebre confidente, lo considera una persona fidata, tanto che quando scopre che lo scrittore ha reso pubblica la sua situazione patrimoniale si sente tradito e lo chiama per lamentarsi. In un’altra scena, Talese gli spiega paternalisticamente come funziona la risacca dell’attenzione mediatica (“conosco molto bene questo gioco!”), ma poi si trova a sua volta con le spalle al muro, dice di considerarsi “finito” per colpa delle menzogne del voyeur.

Alla fine dell’ora e mezza di Voyeur, ci si chiede se il vero protagonista ne è stato Gerald Foos, l’uomo ritratto nell’atto di smontare e rimontare un’allegorica casa delle bambole, o Gay Talese, il suo imprevedibile e irrequieto sodale che ferma i taxi di Manhattan agitando un cappello da centinaia di dollari. Se la storia del guardone nascosto nel soffitto del suo motel a spiare giovani coppie è il potente fil rouge del documentario, i registi hanno scelto di non approfondirne gli immediati risvolti psicologici, etici e morali. Quel che rimane è la costruzione di un libro, e il rapporto fra due uomini appartenenti a un mondo mai così lontano, nel tempo e nella cultura. Quando, nel film, la editor del New Yorker con cui discute la pubblicazione dell’anticipazione di The Voyeur’s Motel si congratula con Talese per non aver passato troppo tempo in Colorado a spiare con Foos – ai lettori sarebbe potuto sembrare creepy – il grande autore la corregge: “Questo tizio non è affatto creepy. È uno come gli altri”.

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