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Perché cancellare le tasse universitarie è solo un regalo a chi non ne avrebbe bisogno

La campagna elettorale è iniziata e non promette nulla di buono. Tra ricette dal sapore neanche troppo lontanamente populiste e propositi di neutralizzazione di alcune delle riforme già messe in cantiere negli scorsi anni, il rischio di un passo indietro, verso uno scenario di instabilità finanziaria, si fa sempre più concreto.
Eliminare il canone Rai, la legge Fornero, instaurare un regime di flat tax con inevitabili dubbi su sostenibilità e copertura, portare le pensioni minime a mille euro, introdurre un reddito per qualcuno di cittadinanza, per altri di dignità. L’elenco delle proposte ai limiti delle offerte da saldo presenti nei negozi in questi giorni è lungo. Da ultimo si è aggiunta anche quella di eliminare le tasse universitarie.

“L’università gratuita si può fare e significa credere davvero nell’istruzione e nei giovani, non solo a parole. È un investimento non solo per loro, ma per tutto il Paese”, ha detto ieri il leader di Liberi e uguali, Pietro Grasso durante l’assemblea nazionale del movimento. Con tutto il rispetto per il presidente del Senato, viene da chiedersi: è davvero così?.

Posto che le tasse universitarie sono già ridotte per i meno abbienti (nello scorso novembre il Sole24Ore aveva rilevato come con il debutto dello “Student act”, nell’anno 2017/18 un iscritto su tre rientra di diritto nella no tax area) e che in altre nazioni dove non esistono tasse universitarie o dove si è provveduto alla loro abolizione sono in vigore rigorosi regimi di numero chiuso in ogni ateneo, sussidiare gli studi con rette universitarie che non coprono i costi rappresenta, nella sostanza, un trasferimento di risorse dai poveri ai ricchi.

Lo ha dimostrato brillantemente Andrea Moro con un’analisi effettuata nel 2012 su dati Istat raccolti nel 2010 e riguardanti redditi e caratteristiche delle famiglie di provenienza degli studenti universitari italiani. I dati non lasciavano spazio a troppe interpretazioni circa una prevalenza nelle università italiane di ragazzi provenienti dalle famiglie più abbienti.

Dall’analisi di Moro si scopriva infatti che i genitori degli studenti universitari percepiscono redditi in media quasi del 50% (il 48%) superiori ai redditi dei genitori di chi non frequenta. E le differenze non sono solo di censo, ma anche sociali. I genitori dei frequentanti sono molto più scolarizzati dei genitori dei non frequentanti: il 27% dei laureati ha almeno un genitore laureato e il 47% almeno un genitore diplomato (dati Consorzio Interuniversitario Almalaurea)

Ne emerge che i frequentati delle università italiane sono già oggi in buona appartenenti a una sorta di elite. In termini concreti quindi non far pagare le tasse universitarie significherebbe in via prioritaria non farle pagare a chi invece le potrebbe sostenere e al tempo stesso far gravare maggiori oneri via tassazione ordinaria sulle famiglie meno abbienti. È questo ciò che si aveva in mente quando si è lanciata la proposta?

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