Sprigionare il potenziale delle persone perché diventino migliori, ecco cosa fa un leader secondo Bill Bradley, ex cestista americano. Ed ecco perché, a differenza di come si pensa, un leader non deve per forza ricoprire posizioni al vertice. Può essere, solo per fare qualche esempio, anche un insegnante, un programmatore, un cuoco. Non deve necessariamente guidare un team ma può solo fare parte di una squadra e allo stesso tempo ispirare colleghi e compagni. Quel che conta è una caratteristica, anzi un insieme di caratteristiche, riconosciute dagli altri che fanno parte del suo modo di essere e di agire.
E quali sono queste caratteristiche? A delinearle dal palco del Leadership Day organizzato da Performance Strategies a Milano, è uno che leader lo è stato e continua a esserlo: Julio Velasco, che dopo aver guidato il Dream Team della Nazionale italiana maschile di pallavolo ora siede sulla panchina della Nazionale argentina.
Ecco 10 suggerimenti che il CT ha dato di fronte a più mille persone e che potete mettere in pratica fin da subito.
Non pensare mai le cose da un unico punto di vista. Sempre più ci circondiamo di persone simili a noi, facciamo parte di gruppi su Facebook o Whatsapp di gente che la pensa come noi e finiamo per avere sempre lo stesso punto di osservazione. E invece secondo Velasco, fondamentale per chi deve guidare è mettersi davvero nei panni degli altri, guardare le cose da più angolature. È difficile, ma basta pensare alla pallavolo: allenatore e giocatore sono entrambi ruoli determinanti, ma hanno prospettive diverse. Un leader deve sì coltivare l’autostima, ma non l’egocentrismo.
Essere sempre autentici. Socrate diceva “Conosci te stesso” e secondo Velasco aveva ragione: la prima caratteristica di un leader è essere se stesso, rispettare la propria personalità. Pretendere di essere un altro alla lunga non paga: sia i gruppi di bambini che gli adulti non rispettano l’inautenticità. Se magari in un primo momento possono essere attratti da un tipo di personalità, se questa non è vera, prima o poi se ne accorgono e allora addio alla leadership.
Avere autorevolezza e competenza. “Ma quella vera”, dice Velasco. Che, tradotto in altri termini, vuol dire non solo sapere le cose in generale. Non basta avere una conoscenza superficiale – che, ammettiamolo, con l’overload attuale di informazioni non è neanche difficile – ma conoscere un argomento e saperlo adattare alla mia azienda, al contesto in cui mi trovo. Sapere vuol dire entrare nei dettagli, nel concreto della mia realtà, tradurre il generale nel particolare. Velasco ha ricordato che “La cultura è quello che rimane quando uno ha dimenticato tutta l’informazione”. Che vuol dire anche “Non so dove ho preso questa cosa, ma è dentro di me”. Non nozioni, ma concetti che restano, come succede ai giocatori che durante una partita prendono determinate decisioni in pochi istanti.
Avere chiara la direzione. Un leader deve sapere dove andare e se l’obiettivo che si è prefissato è realizzabile. Inutile dare finti obiettivi. Inutile mettere la gente alla prova per poi farla ripartire. “Ci sono persone che dicono ‘Intanto arriviamo fin qua’ e poi quando questo obiettivo è stato raggiunto, ne pongono un altro e così via”. È meglio avere un obiettivo finale che sia chiaro, porre nel frattempo obiettivi intermedi parziali e man mano che li si raggiunge, dare dei riscontri positivi. L’obiettivo, poi, non deve essere troppo facile ma neanche troppo al di là delle proprie forze altrimenti si parte demotivati.
Avere fiducia ed essere ottimisti. Lo sbaglio che si fa spesso è quello di volere che i meno bravi diventino bravi come gli altri. Un errore per due motivi: chi è bravo probabilmente lo diventerà ancora di più, ma è soprattutto chi lo è meno che deve migliorare se stesso, sfidare i propri limiti. “Se in una partita, ogni giocatore migliora in modo tale da mettere a terra una palla migliore, la partita è vinta”, dice Velasco. “Una squadra che migliora 7 palloni è una squadra che fa un grande salto di categoria”. Pertanto è meglio chiedere a ogni componente della propria squadra di migliorare poche cose, anche due per volta. Sia perché così la situazione cambia velocemente sia perché questo crea fiducia in tutti e di conseguenza un clima diverso.
Sviluppare la capacità di imparare. È sbagliato pensare che l’adulto abbia un cervello poco plastico rispetto al bambino. Il problema è che gli adulti perdono la capacità di imparare perché sopportano poco l’errore, cosa che nel bambino, quando per esempio comincia a parlare, non solo è tollerata ma viene addirittura “festeggiata”. Il problema, secondo Velasco è che ci muoviamo, da adulti, in un contesto in cui siamo già bravi, ossia il nostro lavoro, che diventa anche la nostra “comfort zone”. Mentre la capacità di imparare va allenata sempre, anche in contesti diversi, per avere gli anticorpi alla frustrazione. Ma non solo: un leader deve continuare a imparare perché “qualsiasi esperienza di apprendimento” ci permette di capire molto su come fare quando siamo noi che insegniamo e guidiamo. Inoltre, continuare ad apprendere fa sì che si abbia una mentalità aperta e a questa è connesso il “piacere di imparare”.
Avere un metodo consapevole, specie nelle aziende dove si è allo stesso tempo allenatori e giocatori. Il metodo deve partire da un presupposto: esistono cose che per me sono facili e per un altro difficili e viceversa. Il metodo non dipende dalle caratteristiche del leader, ma deve rispondere a quelle altrui ed essere “elastico”. Connessa a questo è la creatività, ossia sapere stimolare negli altri la soluzione, partendo da un problema o un compito dato. Perché la fantasia arriva nei momenti in cui non c’è un collegamento e nasce dall’esigenza di trovare una soluzione.
Mostrare una cosa è meglio che spiegare. E quando la si è spiegata, farla spiegare a propria volta e poi farla fare. Non commettere mai l’errore di spiegare le cose un sacco di volte perché “tra nessuna informazione e troppa”, è meglio “nessuna”. Se a un gruppo si presenta un problema è probabile che risponda con la pratica. Se do troppa informazione, il gruppo non farà nulla o entrerà in ansia.
Usare le metafore non solo per allenare il pensiero laterale, ma per creare delle immagini, che c’entrano con le conoscenze comuni e che aiuteranno meglio a richiamare alla mente un concetto.
Fare le domande giuste. Socrate, nei suoi dialoghi, usava la maieutica e così deve fare un leader: fare quelle domande che sa già dove porteranno la persona che risponderà. Attenzione: domande vere e non retoriche.
Last but not least: Velasco ha parlato per ore senza usare nessuna slide. Perché? Perché, secondo lui, spesso si ottiene l’effetto contrario ossia si crea un problema di doppia attenzione in cui chi abbiamo davanti deve contemporaneamente ascoltare, leggere lo schermo e recepire concetti da usare a sua volta con le persone. Troppe slide non aiutano a prendere appunti, operazione che secondo il CT è complessa ma va allenata. Saperlo fare vuol dire scegliere le parole che rimanderanno a un concetto, che sono più importanti per noi e ci serviranno nel nostro lavoro e nella vita.
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