Il 9 novembre 2016, il giorno dello spoglio dei risultati delle ultime elezioni presidenziali americane, ero all’università, precisamente a un corso di Letteratura inglese. Quel giorno indossavo una maglietta di Bernie Sanders e mi bruciavano gli occhi perché avevo passato la mattinata a leggere incredula tonnellate di articoli dai toni apocalittici sul disastro delle elezioni. In quelle due ore di lezione avremmo dovuto parlare di Otello e degli inganni del subdolo Iago, ma il mio professore preferì parlarci di Donald Trump con una furia e un vigore davvero fuori dal comune per un pacato accademico settantunenne. Ci disse che noi presenti in quell’aula di università non potevamo farci molto, ma che non c’era da disperare, perché è nei momenti più bui che la cultura, la letteratura e le arti vincono sulle tenebre della storia. Se la realtà ci stava mettendo di fronte all’odio e all’intolleranza noi, gli intellettuali, avevamo il dovere morale di far fiorire la bellezza e il progresso.
Rimasi davvero colpita da quel discorso così politico. In tre anni di università, nessuno ci aveva mai detto nulla di così forte, pur frequentando una facoltà notoriamente attiva (Lettere) in un’università che ha fatto la storia dei movimenti studenteschi (la Statale di Milano). In quel momento non mi sentivo nel 2016, ma in un’epoca diversa, se passata o futura non l’avevo ancora ben capito. A gennaio sottoscrissi l’abbonamento per il New Yorker e la copertina del primo numero che trovai nella cassetta della posta raffigurava un Donald Trump dalla testa enorme a bordo di un’auto presidenziale giocattolo. L’editoriale di quella settimana, scritto da George Packer, commentava l’ultimo discorso di Obama come presidente, “un emblema di ciò che siamo stati e che forse possiamo ancora essere”. Obama ricordava all’America che la qualità della democrazia dipende dagli elettori stessi, dalla loro capacità di empatizzare col prossimo e dalla loro volontà di sporcarsi le mani. Ricordo ancora che leggendolo fui presa nuovamente da quella sensazione di cambiamento epocale e mi sentii, forse per la prima volta, testimone e parte attiva della storia. Qualche giorno prima dell’uscita di quel numero del New Yorker, 500mila manifestanti, in prevalenza donne, marciarono a Washington per contestare il presidente neoeletto.
Due anni dopo, all’inizio del 2018, posso affermare con una certa sicurezza che quello che è successo a novembre 2016 ha segnato una svolta nella storia, e che la mia sensazione non era poi così sbagliata. Ma esageriamo se diciamo che esattamente cinquant’anni dopo l’anno che ha cambiato la modernità, siamo di fronte a un nuovo Sessantotto? Quello che sentivo io leggendo il New Yorker o guardando la Women’s March nelle dirette Facebook è lo stesso che sentivano i ventenni cinquant’anni fa leggendo il Times o marciando alla Columbia University? La risposta è complicata. Gli ingredienti per un nuovo movimento culturale in Occidente ci sono tutti, almeno in teoria: un presidente degli Stati Uniti impopolare e controverso, una guerra che divide l’opinione pubblica, una fioritura dei movimenti femministi, anti-razzisti e di giustizia sociale. Quello che cambia, ovviamente, è il contesto storico. Nel 1968 non c’era mai stato un Sessantotto e di conseguenza non c’era un background simile di lotte e rivendicazioni da cui prendere esempio. Questo aspetto è cruciale nell’analisi di quello che succede adesso nel mondo. Oggi il Sessantotto – anche semanticamente, dal momento che un aggettivo numerale è diventato un sostantivo da scrivere con la maiuscola – è diventato un mito di nostalgia. Si sono spese molte parole sul significato sociale e politico di quell’anno e dei suoi effetti sulla nostra contemporaneità, e d’altronde è facile cadere nel fascino della storia come ciclo continuo, della storia che ritorna sempre uguale a se stessa.
In America Trump è riuscito a scatenare proteste così vivide e prese di posizione così forti come non se ne sono viste spesso negli ultimi cinquant’anni. Nel 1968, gli atleti afroamericani Tommie Smith e John Carlos fecero il saluto del Potere Nero sul podio dei 200 metri piani alle Olimpiadi di Città del Messico durante l’inno americano. Dimostrazioni simili si verificarono ancora nel mondo dello sport fino al 1973 e poi mai più, fino al 2016, quando alcuni atleti della National Football League hanno deciso di non alzarsi durante l’inno, o di alzare il pugno al cielo, o addirittura di inginocchiarsi. Dopo la sparatoria che ha colpito una scuola superiore in Florida, gli studenti sopravvissuti si sono organizzati in una serie di manifestazioni contro Trump e la violenza con armi da fuoco che hanno avuto un seguito sorprendente in molti Stati. Un’indagine tra i partecipanti della Women’s March dello scorso 20 gennaio, condotta da Dana R. Fisher, professoressa di sociologia all’università del Maryland, ha rilevato che l’80% di loro aveva già partecipato a quella del 2017, il 41% alla March for Science del 22 aprile dello stesso anno e il 26% alla People’s Climate March.
E in Europa? Ivan Krastev, chairman del Centre for Liberal Strategies di Sofia, ha scritto un laconico articolo sul New York Times intitolato “Il 2018 sarà rivoluzionario come il 1968?”, dove illustra le somiglianze tra Sessantotto e 2018 in modo del tutto inaspettato. Krastev cita un documento, “A Europe We Can Believe In”, scritto da un vasto gruppo di pensatori e teorici conservatori che auspicano un nuovo corso per l’Europa basato su istanze che, secondo lo studioso bulgaro, sono molto vicine alla Sinistra sessantottina. Ciò che stupisce, infatti, è che dei conservatori si facciano portavoce di una “rivoluzione” prima di tutto culturale, fondata sul concetto di “rispetto”, per le minoranze ma anche per le maggioranze. Anche i partiti populisti sono, in un certo senso, partiti culturali, perché vogliono plasmare l’identità nazionale e la narrazione storica. Più che delle tasse o del welfare, osserva Krastev, i populisti si preoccupano dell’educazione dei bambini e del rapporto della società con il proprio passato. In questo senso l’immigrazione, con la mescolanza culturale che inevitabilmente porta con sé, diventa il terreno di battaglia ideale per la lotta su queste questioni. La suddetta tendenza, che è stata anticipata dall’elezione di Trump prima e dalla Brexit poi, è stata confermata in Italia dall’esito delle elezioni del 4 marzo. A vincere è stato l’anti-establishment, che ha abbandonato molotov e barricate per utilizzare matite e tessere elettorali. Insomma, il nuovo Sessantotto europeo lo faranno conservatori e populisti?
Certo, dobbiamo tracciare bene una linea di demarcazione tra gli Stati Uniti e l’Europa, e un’altra forse ancora più definita tra il resto dell’Europa e l’Italia. Il 1968 degli Stati Uniti fu caratterizzato dalla contestazione della guerra del Vietnam, ma ancor più dai movimenti dei diritti civili per gli afroamericani e le persone LGBTQ. In Italia le premesse (e ancor più le conseguenze) furono diverse. A cinquant’anni da quei fatti è difficile tirare le somme, soprattutto nel nostro Paese, dove le visioni di parte riescono ancora a distorcere la realtà. Quel che è innegabile è che, almeno in Italia, se il sistema è crollato così facilmente è perché si reggeva su fondamenta non poi così stabili. E se è stato semplice distruggere ciò che era stato costruito male e in fretta e furia dopo l’eredità fascista, è chiaro che la ricostruzione post-sessantottina non è stata un procedimento poi così strabiliante. Oggi l’idea di ribaltare il sistema fa sorridere ai più, e le proposte di cambiamento radicale non vengono viste di buon occhio nemmeno nelle aree più progressiste. “Mandarli tutti a casa” non è più un concetto da rivoluzionari, piuttosto da reazionari, che più che gli antichi fasti della Comune di Parigi ricorda certe squallide uscite del carrozzone politico più recente. Ed è qui forse che sta lo scarto tra il “nuovo Sessantotto” americano e quello italiano: nella migliore tradizione del Belpaese, cambiare tutto affinché non cambi niente.
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