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Sognando Starbucks: una giornata coi candidati alla Roastery di Milano

Una scena del recruitment day a Milano.

“Non siamo venuti qui per insegnare agli italiani a fare il caffè”. L’excusatio non petita non è la prima che Howard Schultz, fondatore e presidente di Starbucks qui in versione felpa in pile, dovrà concedere nei suoi video-saluti al pubblico accorso per l’occasione: siamo al Palazzo della Permanente di Milano, che oggi ospita il benvenuto a 500 aspiranti impiegati del marchio del Frappuccino. Circa un astante su cinque alla fine della giornata potrà diventare parte della nuova ambiziosa Roastery di Milano, l’attesa prima italiana del colosso internazionale del caffè, che aprirà il prossimo settembre.

Le frasi timorate di Schultz – al 288esimo posto della Forbes 400, la classifica dei miliardari americani – non devono ingannare: quello della Starbucks Reserve Roastery è un progetto che ha richiesto investimenti di prim’ordine, e su cui il brand di Seattle punta molto della sua immagine e del suo prestigio; 2400 metri quadri in piazza Cordusio, seguiti nei mesi seguenti da altre aperture minori – avallate dal partner commerciale Percassi – che porteranno le assunzioni a un totale di 300 unità. Alla fine, trentacinque anni dopo il mitico viaggio a Milano in cui Schultz si innamorò dei bar (“un terzo luogo tra casa e lavoro”, come li definisce nel videomessaggio), la sua azienda è pronta alla prova del fuoco dello sbarco in Italia. Perché tutto questo tempo? Lo chiediamo a Marco (tutti i nomi dei partecipanti sono di fantasia, ndr), trentenne in giacca e camicia che si riposa su un pouf in attesa dell’inizio dei colloqui e ci dà la sua opinione: “Credo abbiano dovuto studiare le loro mosse e incrementare la presenza internazionale prima di avventurarsi nel mercato del caffè italiano, che è impenetrabile per definizione”.

La famiglia di Marco gestisce da decenni una torrefazione del centro Italia, ragione per cui lui ha inviato l’application anche per il ruolo di torrefatore, ma alla fine è stato selezionato fra i baristi. Riprendendo una nota serie di polemiche sorte all’indomani dell’annuncio dell’apertura di Starbucks a Milano, gli chiediamo se non si senta stretto da una contraddizione in termini: da una parte la tradizione familiare (e, per qualcuno, inviolabile) del caffè italiano, dall’altra i Frappuccini della grande corporation americana. “No, anzi: Starbucks ha innovato il processo di produzione e serve lo stesso caffè di qualità a ogni latitudine. Lo puoi bere ad Amsterdam o a Shanghai, non fa differenza”. Per Marco, gli appelli accorati al salvataggio del caffè italiano non hanno motivo di esistere: “Non smetteremo certo di andare al bar per colpa di Starbucks: è semplicemente un altro prodotto, che può esistere accanto all’espresso classico. Che male c’è?”.

Una scena del recruitment day a Milano.

A caratterizzarlo, questo “prodotto”, è anche un asso nella manica che sembra aver motivato molti dei presenti: la “Starbucks Experience”, l’atmosfera accogliente dei suoi negozi, diventata a un tempo marchio di fabbrica e sinonimo tout court dell’azienda. “Appena ho sentito che Starbucks avrebbe aperto in Italia, mi sono fiondato a presentare la candidatura: voglio respirare un’aria internazionale”, spiega Dario, un timido studente di 19 anni. Dario vive a Milano, ma viene dalla provincia di Sondrio: “Mi sono candidato a un ruolo da barista part-time, per continuare a studiare e ripagarmi la vita da fuorisede”. E i rimbrotti dei difensori della cultura del caffè? “Mah, in Italia ci si lamenta sempre, e a prescindere: non ci do molto peso”.

Molti dei presenti hanno trascorsi lavorativi in bar e torrefazioni: i genitori di Chiara, una ragazza diciottenne che sorseggia uno dei caffè preparati dagli stand Starbucks allestiti per l’occasione, ne posseggono uno, e lei ha potuto farsi le ossa, anche se “solo ogni tanto”. “Ai primi colloqui non ero tesa, i recruiter mi hanno messo a mio agio, è stato tutto molto informale. Mi hanno chiesto qual è il mio rapporto col caffè, e io lo adoro”, scherza Chiara.

L’età media è bassa, a occhio oscilla tra i 25 e i 35 anni, ma ci sono anche eccezioni. Monica, quarantacinquenne, ha passato le prime selezioni, ma non è una starbucksiana della prima ora: “Ho mandato l’application un po’ per caso, perché cercavo un nuovo posto di lavoro, ma i colloqui sono andati bene, ed eccomi qui”, dice accanto a un pannello che illustra la provenienza del caffè delle piantagioni africane e sudamericane da cui si serve Starbucks. Poco dopo la folla si riunisce attorno a un palco su cui sale e prende la parola Martin Brok, presidente della sezione Europa, Africa e Medio oriente della multinazionale: “Oggi è una giornata storica”, dichiara trionfalmente. Forse lo è anche per Alice e Benedetta, due amiche di poco più che vent’anni sedute accanto a me a un tavolino. Alice ha lavorato in un bar a Madrid, Benedetta invece non ha esperienze di questo tipo, dice, ma è rimasta colpita dall’approccio delle risorse umane dell’azienda: “Non ti chiedono quanti anni di esperienza pregressa hai: guardano a che persona sei, al tuo carattere, alla motivazione, per capire se faresti al caso loro per accogliere i clienti mettendoli a loro agio. In fondo a fare il caffè col tempo si impara, ma farsi voler bene, beh”, si ferma e abbozza un sorriso, “quello è più complicato”.

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