Holden Ford (Jonathan Groff) in un episodio di “Mindhunter”.

Nella recente serie televisiva di Netflix, Mindhunter, alla fine degli anni ’70 un giovane negoziatore (Holden Ford) e un più esperto agente dell’Fbi (Bill Tench) uniscono le loro forze per dedicarsi a un filone di studi pioneristico: la profilazione criminale di un nuovo tipo di assassino, il serial killer, da portare a termine mettendosi nei panni dei peggiori assassini d’America. Il duo, coadiuvato dalla professoressa Wendy Carr, inizia così a visitare le principali prigioni statunitensi, sperando di poter, un giorno, essere ammesso nella cella di sicurezza di Charles Manson.

La finzione scenica di Mindhunter è anche quanto di più vicino si possa trovare a uno studio condotto da Arielle Baskin-Sommers dell’Università di Yale, i cui risultati sono appena stati pubblicati sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of SciencesBaskin-Sommers e il suo team di ricercatrici hanno approfondito il punto di vista dei soggetti psicopatici: com’è noto, chi è affetto da psicopatia ha dei problemi a comprendere le emozioni altrui (motivo per cui gli assassini si dimostrano spesso così crudeli e privi di empatia), ma c’è dell’altro.

Il gruppo di ricerca ha allestito una serie di laboratori improvvisati nel perimetro delle prigioni del Connecticut, composto da una sedia, una scrivania e un computer con un test visuale per il detenuto: un avatar di un altro prigioniero – riconoscibile per la consueta divisa arancione – guardava a destra o a sinistra, e aveva o due puntini sul muro davanti a lui, o un puntino sulla parete dietro di lui e l’altro su quella davanti. Ai 106 partecipanti è stato chiesto di dire quanti puntini potevano vedere, e quanti invece poteva vederne il personaggio del render. In condizioni normali, la mente umana adulta è allenata fin dall’infanzia a prendere la prospettiva altrui, tanto da causare ciò che la psicologia definisce interferenza allocentrica: a causa di quest’ultimo fenomeno, quando il totale dei puntini che vediamo in prima persona differisce da quello visibile dall’avatar, ci mettiamo un secondo in più a dare la risposta corretta, incapaci di scindere istantaneamente la nostra prospettiva da quella della figura.

Bill Tench (Holt McCallany) in un episodio di “Mindhunter”.

Nella mente di una persona psicopatica, questa scissione spesso avviene in maniera deliberata. Gli intervistati che Baskin-Sommers aveva già classificato come affetti da psicopatia hanno mostrato un livello di interferenza allocentrica molto più basso rispetto a quello degli altri detenuti: queste persone, per qualche motivo, erano immuni al punto di vista dell’avatar dell’esperimento. A dirla tutta, anzi – come spiegato sull’Atlantic, che ha dedicato un pezzo alla ricerca – maggiore era il punteggio sulla scala della psicopatia della ricercatrice, e minore si dimostrava l’incidenza della prospettiva altrui sulle risposte del detenuto.

Lo studio ha dimostrato per la prima volta che gli psicopatici non assumono automaticamente la prospettiva altrui, la prassi per tutti gli altri: possono farlo come no, ma è una loro scelta, un interruttore da attivare solo in determinati casi. Gettare luce su queste dinamiche può servire a migliorare la vita quotidiana nelle carceri: “Stiamo pensando di organizzare corsi per il personale penitenziario, perché sappiano come parlare ai detenuti psicopatici e persuaderli ad assumere volontariamente la prospettiva altrui”, ha dichiarato Arielle Baskin-Sommers, in una frase che avrebbe benissimo potuto pronunciare Holden Ford.

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