Tra la videocamera e la sua mente, Jonas Mekas non ha mai messo barriere. “Quando riprendo, sto anche riflettendo”, ha sempre detto. E i suoi film vanno a comporre una sorta di diario della sua vita, un racconto della quotidianità che si allarga fino a diventare il ritratto di una generazione di americani. A 95 anni, Mekas è considerato una leggenda del cinema d’avanguardia. Nato in Lituania nel 1922, dopo un periodo trascorso in Germania (dove fu rinchiuso in un campo di lavoro durante la guerra) emigrò nel 1949 a New York, stabilendosi a Brooklyn. Fu qui che iniziò a prendere confidenza con la videocamera. Il suo approccio alla ripresa era puramente istintivo: si aggirava per strada filmando passanti, famiglie con bambini, teenager, donne eleganti che passeggiavano in gruppo. Ne nascevano film composti da piccole porzioni di realtà che celebravano la bellezza della vita quotidiana. Una bellezza che lui coglieva nei dettagli e nei momenti in apparenza più normali: una passeggiata al parco, il gioco dei bambini, l’incedere delle auto in una strada trafficata di New York. Uno dei suoi luoghi preferiti era Central Park, con la sua porzione di natura boschiva e la sua girandola di umanità. Negli anni ’60 si avvicinò alla scena artistica underground newyorkese contribuendo allo sviluppo del New American Cinema e diventando il sostenitore di artisti come Andy Warhol, Yoko Ono, John Lennon, i Velvet Underground, Allen Ginsberg, Stan Brakhage e Salvador Dalì. Fu lui il primo a promuovere i film di Andy Warhol.
Abbiamo intervistato Jonas Mekas nel contesto della sua mostra personale a Palazzo della Ragione di Bergamo (fino al 15 aprile) – a cura di Stefano Raimondi e Claudia Santeroni – organizzata in occasione della rassegna cinematografica Bergamo Film Meeting. Un percorso espositivo che riassume la carriera di Mekas, presentandone l’intreccio tra produzione filmica e fotografica. Allestita nella suggestiva Sala delle Capriate, la mostra si apre con la serie di fotogrammi impressi su lastre di vetro In An Instant It All Came Back to Me, per poi proseguire con le fotografie di Birth of a Nation e To New York with Love, in cui l’artista ricorda, tra le altre, alcune delle personalità che hanno fatto parte della sua vita come Jackie Kennedy, Michael Snow, Peter Kubelka e Jerome Hill. La doppia proiezione Seasons racconta invece l’alternarsi delle stagioni a New York senza fare uso di una narrazione ciclica. Accompagna le opere una raccolta di pubblicazioni scritte da Mekas, tra cui My Night Life, in cui l’artista raccoglie i sogni fatti avvenuti tra il 1978 e il 1979.
Di cosa parla esattamente il video Seasons?
Seasons è composto da frammenti di film che ho realizzato tra il 1960 e il 1990. L’idea è nata da una riflessione: la gente di New York non vede la natura che ha attorno. Eppure ce n’è più di quanto pensiamo. Sono nato in un paese di campagna: potrei camminare per le strade di New York fino a perdermi tra i grattacieli, ma noterò sempre anche la più piccola strisciolina d’erba sul lato del marciapiede. È così forte l’immagine, il suono, l’odore dei ricordi della mia infanzia, che influenza ancora oggi tutto quello che faccio. Non sono un regista astratto: il mio cinema riguarda la natura e le persone.
Come ha iniziato a filmare la realtà attorno a lei? E perché ha scelto il video e non la fotografia?
Prima di arrivare a New York ho fatto molta fotografia, mentre il video mi era totalmente estraneo. Ben presto scoprii il MoMA e le sue proiezioni quotidiane di film cult. Una scoperta che mi ha aperto gli occhi sulle infinite possibilità del cinema: prima che me ne potessi rendere conto, mi ritrovai al centro di tutto. Volevo vedere film, volevo fare film, volevo mostrarli e condividerli con i miei amici. Alla fine sono riuscito a fare tutto!
Cos’ha portato nei suoi film della sua infanzia in Lituania?
In un certo senso, tutto quello che faccio, nella mia poesia e nel mio cinema, ha radici profonde nella mia infanzia. Quando avevo circa cinque o sei anni iniziai a tenere un diario non dei miei pensieri o sentimenti, ma della realtà che mi circondava. Il mondo di un bambino è molto reale. Ed è ancora quello che sto facendo, in un certo senso. Tutto ciò che faccio lo considero una celebrazione della vita, della realtà, della natura.
Come ha conosciuto Andy Warhol, e come vi siete trovati a collaborare?
Andy è apparso per la prima volta nella mia vita durante una delle proiezioni che tenevo al loft di Park Ave Street nel 1962. Le mie proiezioni diventarono la sua scuola di cinema e fu qui che incontrò alcune delle sue “superstar” come Jack Smith, Taylor Mead, Mario Montez, Naomi Levine, Ultra Violet e Barbara Rubin. Presto iniziò a girare i suoi film ed ebbe bisogno di un luogo in cui mostrarli. Io gestivo il cartellone del loft, e gli offrii una location. Per un po’ di tempo fui l’unico sostenitore del suo cinema: nel mio cv potrei inserire che sono stato ministro della Difesa, ministro della Propaganda, ministro dell’ospitalità e talvolta anche ministro delle Finanze di Andy Warhol.
Qual è il suo rapporto con New York, oggi? E con il suo Paese natale?
New York ha salvato la mia sanità mentale, la mia vita. Quando arrivai a New York ero a pezzi: la città mi ha aiutato a rimettermi in sesto, siamo cresciuti insieme e ci siamo legati come due amanti. Sì, sono nato e cresciuto in Lituania, in un piccolo villaggio totalmente immerso nella natura. Ma sono nato per la seconda volta quando ho letto la prima poesia. E per la terza volta quando sono atterrato a New York. Porto con me queste tre vite e fanno parte di tutto ciò che faccio.
Nella pubblicazione My Night Life lei riporta i sogni fatti tra il 1978 e il 1979. Quanto è importante la dimensione onirica nella sua arte?
Non sono veramente interessato ai sogni, ma credo rappresentino una parte molto reale e misteriosa di noi. Per un anno, come esercizio della memoria, ho voluto trascriverli. È nato così il libro My Night Life. Trovo molto interessante il fatto che all’inizio non riuscissi a ricordare nulla dei miei sogni. Soltanto dopo ho sviluppato una tecnica che mi facesse ricordare ogni minimo dettaglio. È stato esattamente come durante i miei studi di giornalismo, quando mi esercitavo a riportare parola per parola i ricordi che affioravano nella mia memoria.
Il suo film As I was Moving Ahead, Occasionally I saw Brief Glimpses of Beauty racchiude molto della filosofia del suo cinema. Cos’è la bellezza per lei?
Oggi sono stato molto indaffarato con alcune riunioni. Mentre tornavo a casa, a Brooklyn, mi è venuta l’idea di passare dal mio ristorante turco preferito per un bicchiere di vino e mangiare un boccone. Ho invitato il mio amico Benn, che era alla riunione con me. A un certo punto Benn ha notato un amico dall’altra parte della strada e abbiamo invitato anche lui. Eravamo lì, noi tre al ristorante, e tutti avevamo la sensazione di aver fatto bene il nostro lavoro quotidiano. Abbiamo bevuto del favoloso vino bianco turco e improvvisamente ci siamo sentiti felici e abbiamo pensato che fosse un momento molto bello, solo per il fatto di essere lì a non preoccuparci di nulla. È stato uno di quei momenti in cui percepisci la bellezza dell’attimo. Poi ci siamo separati e ognuno è andato per la sua strada. Adesso sto ancora portando dentro di me quel lampo di bellezza di quell’ora trascorsa con i miei amici.
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