Forbes Italia
Cultura

Cosa aspettarsi da Miart 2018: parla Alessandro Rabottini

Opera di Eva Kot’átková presente all’edizione di quest’anno di Miart.

Alessandro Rabottini ha 42 anni, e un profilo curatoriale di alto livello che lo ha portato al vertice di uno dei più importanti appuntamenti del panorama artistico italiano: nel 2017 ha raccolto il testimone della direzione di Miart da Vincenzo De Bellis, portando avanti con intelligenza un ottimo percorso di rinascita qualitativa della fiera. Abbiamo chiacchierato con lui a pochi giorni dall’opening della manifestazione (in calendario tra il 12 e il 15 aprile, accanto a una ricchissima programmazione di mostre ed eventi art-oriented) per scoprire, ad esempio, che un curatore deve essere anche un po’ manager. E che coccolare collezionisti provenienti da tutto il mondo significa anche offrire loro una città colta, interessante, sofisticata.

Alessandro Rabottini, 42 anni.

Siamo al secondo anno della tua direzione di Miart, anche se si tratta di un contesto in cui ti muovevi già da tempo grazie alla collaborazione con Vincenzo De Bellis nelle edizioni precedenti: l’ottica è quindi quella di un consolidamento di premesse progettuali già avviate. C’è però qualcosa che senti fortemente tuo, in questo nuovo corso della fiera?

Ci sono tante cose che in queste due edizioni abbiamo cercato di portare avanti e migliorare, a partire dal rapporto consolidato con gli espositori che ci accompagnano da anni (e che sono la nostra ossatura), e il coinvolgimento di nuovi. Posso anche citare la sezione di gallerie dedicata alle opere site-specific o interattive, ovvero “on demand”: è una sezione che abbiamo introdotto l’anno scorso come esperimento pilota, e che quest’anno è stata ulteriormente rafforzata selezionando i progetti in modo che fossero numericamente inferiori, ma molto più ambiziosi. Alcuni di questi sono delle vere e proprie mostre personali – in alcuni casi anche con una relazione diretta con la Milano Art Week: ad esempio la berlinese Meyer Riegger presenterà una personale di Eva Kot’átková (contemporaneamente in mostra all’Hangar Bicocca), o Peter Kilchmann un lavoro monumentale di Teresa Margolles (visibile anche al PAC).

Il fatto stesso di avere molti progetti monografici, tra l’altro, è qualcosa che quest’anno attraversa tutte le sezioni – moderno, contemporaneo ed “Emergent” – e in una fiera è sempre un segno di forte impegno da parte delle gallerie: è il caso degli stand personali di Carsten Höller con Massimo De Carlo, Oliver Osborne con Gió Marconi, Per Kirkeby con Michael Werner e Pietro Consagra con Robilant + Voena, solo per citarne alcuni.

Un’altra cosa che sento molto mia è lo sviluppo che abbiamo dato alla comunicazione di Miart, a cui hanno collaborato protagonisti di discipline diverse. L’idea è di partire da un racconto per immagini, e sviluppare su più piattaforme quella che di fatto è una commissione artistica: una campagna promozionale che ci ha permesso di tenere viva l’attenzione lungo i mesi, attraverso strumenti differenti. Motivo di soddisfazione, inoltre, è il fatto di aver potuto aggiungere a partire da questa edizione un servizio educational dedicato al pubblico, come le visite guidate gratuite che possiamo offrire grazie al sostegno di Fidenza Village. Un ultimo cambiamento di cui vado molto fiero riguarda la sezione “Object”, dedicata al design: per la prima volta, si apre anche a gallerie straniere.

 

Proprio a proposito delle sezioni che hai nominato, uno dei tratti peculiari del format di Miart è quello di includere sia un’offerta di arte moderna (con opere a partire dal 1900) sia una di contemporaneo, a cui si aggiunge una parte dedicata al design d’autore. In base alla tua esperienza, questo richiama tipi di pubblico distinti, e in qualche modo separati, dal punto di vista del collezionismo? Oppure tendono a fondersi, e chi investe nel moderno è poi portato a investire anche sul contemporaneo o sul design?

Dipende molto dalla tipologia di collezionista. È sicuramente vero che la distinzione in aree diverse è funzionale al fatto che le persone devono potersi orientare all’interno della fiera, e dei suoi molti contenuti.

 

Anche fisicamente, giusto?

Certo. C’è una specificità nella programmazione delle gallerie, così come c’è una specificità nella tipologia di collezionismo. Esiste però anche un tipo di collezionista più trasversale, quindi che guarda sia allo storico che al contemporaneo, e agli oggetti di design. E una sezione come “Generations” (in cui due gallerie collaborano a creare un dialogo tra due artisti appartenenti a generazioni diverse) è il luogo in cui questa trasversalità si può manifestare al meglio, dando vita a delle contaminazioni che sarebbe difficile creare altrove.

Prisma per miart 2018, courtesy Mousse Agency.

Ci sono fiere che con il passare degli anni raddoppiano, o addirittura triplicano le proprie sedi in altre città del mondo – penso a casi classici come Art Basel e Frieze, ma anche ad esempio ad Artgenève che ha base anche a Monte Carlo. Se idealmente dovessi immaginare un’estensione di Miart in un’altra città, quale potrebbe essere? O al contrario pensi che l’identità della fiera sia legata in maniera troppo stretta a quella del mercato italiano e milanese?

Innanzitutto è doveroso ricordare che Fiera Milano organizza anche la fiera d’arte di Cape Town, in Sud Africa: esiste quindi, in effetti, un prodotto di Fiera Milano che guarda a un mercato geograficamente diverso dal nostro. Detto questo, la tua è forse è una domanda più legata alla strategia aziendale che alla direzione artistica. Io ho la fortuna di lavorare su Miart, il cui progetto ha un’identità che cerca di fare da specchio alla natura di Milano: ma immagino che qualsiasi caso in cui si trasferisca un progetto altrove richieda un lavoro specifico di ricontestualizzazione. Anche le fiere che hai nominato hanno comunque un forte radicamento nel contesto che le ospita, non vengono trasferite di peso in altre città.

 

Proprio a proposito del radicamento di una fiera nel tessuto della città ospitante, un aspetto interessante è il fatto che negli ultimi anni (direi a partire dall’inizio del nuovo millennio) si è assistito al frammentarsi delle fiere d’arte in un ventaglio di “eventi collaterali” sia interni (penso ai programmi, sempre più ricchi, di talk e incontri), sia – soprattutto – esterni: la fiera ormai si espande in tutto il tessuto cittadino, creando una vera e propria rete di mostre ed eventi che coprono solitamente l’arco di una settimana. Che spazio trova, in questo panorama, il mercato in senso stretto? Questa trasformazione della fiera in “evento” a 360 gradi ha favorito il collezionismo, o lo ha in qualche modo fatto passare in secondo piano a favore di un pubblico più ampio?

Per quanto ci riguarda, tutto quello che completa il progetto Miart – quindi tutte lo cose di cui hai parlato, come i talk che realizziamo in partnership con In Between Art Film – è sempre pensato e calibrato nell’ottica di supportare ed espandere il mercato. I talk non sono una sorta di eccentricità intellettuale, fanno in modo che un certo numero di persone che rappresentano istituzioni (direttori di musei e curatori) vengano in città ed entrino in dialogo con le gallerie e le istituzioni, portando all’interno della fiera la voce delle biennali e dei musei stranieri. E questa è una componente fondamentale, perché le scelte che i curatori fanno vedendo artisti esposti qui, avranno molto probabilmente un’influenza sull’andamento di mercato degli artisti stessi.

Secondo me il programma espositivo in città ha una funzione essenziale per quello che facciamo: innanzitutto non è semplice far viaggiare i collezionisti se non hanno anche occasione di visitare una città, che magari conoscono poco, che li incuriosisca per l’offerta espositiva. La ricchezza di mostre nel tessuto cittadino è un elemento fondamentale che motiva le persone. Ma anche l’offerta del ristorante della Vip Lounge, ad esempio, fa parte del clima che cerchi di creare perché il mercato possa esprimersi. Noi facciamo attenzione a dosare questo aspetto nel modo migliore, ma non c’è mai un momento in cui non lo contestualizziamo in un’ottica di mercato, semplicemente perché Miart è una fiera.

 

A proposito della Vip Lounge… Miart prevede numerose partnership con realtà finanziarie e aziendali di alto livello nel nostro Paese – che sostengono la Fiera a vario titolo. Penso ad esempio al main sponsor, Intesa Sanpaolo, o a Flos – che quest’anno vi sostiene come sponsor tecnico anche con la collaborazione di un designer. In che modo prendono forma e si consolidano questi rapporti, e come funzionano?

Ogni relazione ha la propria dinamica: la main partnership con Intesa Sanpaolo è, ad esempio, il risultato dell’incontro tra una manifestazione come Miart e un istituto che dell’impegno con l’arte e la cultura ha fatto un asso portante della propria identità; il rapporto con Flos, invece, è nato dal desiderio di mostrare una forma di illuminazione come quella di Michael Anastassiades, in cui è quasi impossibile tracciare un confine tra funzionalità e aspetto scultoreo. Quindi non si è trattato di un product placement qualunque, ma c’è stato il desiderio di avere un autore che ha una voce molto influente nel design contemporaneo. Allo stesso modo, con Elle Decor abbiamo stretto una partnership in nome dell’eccellenza negli arredi della Lounge: così come cerchiamo di offrire delle eccellenze con Da Vittorio per la ristorazione e Ruinart per lo champagne, volevamo che anche l’ambiente riflettesse questa idea di alta qualità. E ci siamo trovati molto bene, perché la linea editoriale di Elle Decor rispecchiava la nostra sensibilità.

Una sala dell’edizione 2017 di Miart.

Per quanto riguarda invece i diversi premi e fondi acquisizione? Anche quelli riguardano collaborazioni con realtà aziendali italiane, se non sbaglio…

Tutti i partner con cui istituiamo i premi (Herno, Fidenza Village, Snaporazverein, LCA Studio Legale, Cedit Ceramiche d’Italia, oltre al riconoscimento del Rotary Milano Club Brera e al contributo fondamentale del Fondo di acquisti Fondazione Fiera Milano) hanno con noi un rapporto consolidatosi nel corso degli anni. L’aspetto fondamentale di queste collaborazioni è la continuità: quando c’è questa, significa che le cose vanno in una direzione di crescita. Ognuno di questi premi è sempre sviluppato con il fine di riuscire a raccontare qualcosa di quel marchio, di quel partner. Ed è questo il motivo per cui preferiamo non chiamarli “sponsor”: proprio perché sviluppiamo con loro dei contenuti. Ad esempio, il premio Herno è nato con l’idea di assegnare un riconoscimento al miglior stand proprio perché il brand ha nel proprio dna una ricerca molto avanzata a livello tecnologico e sperimentale… Quindi abbiamo sviluppato con loro l’idea di dare il premio a chi sia in grado di portare nello stand un alto livello di ricerca.

 

Un direttore di fiera si sente più manager o curatore? Ovvero, quanto è necessario avere il polso della situazione del mercato in senso stretto, rispetto a competenze di direzione artistica?

Non credo nella netta separazione tra queste due figure. È necessario riuscire a coniugare le due cose, e questo vale anche in un’istituzione museale: a maggior ragione sarà vero nel contesto del mercato dell’arte. Si deve ad esempio essere in grado di parlare di contenuti con le gallerie, perché nel momento in cui sottopongono i loro progetti per la fiera, si deve naturalmente conoscere di che cosa si sta parlando.

 

E poi ci si affida alle gallerie stesse per avere il polso dell’andamento del mercato dei singoli artisti, immagino.

Considera che le gallerie, oltre a essere i nostri clienti, sono anche le protagoniste della fiera: la voce è la loro. Quello che si può fare, da parte nostra, è creare un contesto che permetta loro di esprimersi nel modo migliore possibile. Ma per poterlo fare, è necessario avere una visione molto organica delle cose e dimenticare i compartimenti stagni.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .

Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .