Miden è l’ultimo libro di Veronica Raimo, uscito da poco per Mondadori. In una società ideale dove tutto è controllato e perfetto, nel contesto di una piccola comunità sfuggita a una Grande Crisi, improvvisamente esplode un elemento stonato: un professore universitario viene accusato di violenza da parte di una sua ex studentessa con cui aveva avuto una relazione, e questo mentre la sua compagna aspetta il loro primo figlio. La storia è narrata in forma di brevi capitoli che alternano il punto di vista del professore e quello della sua compagna.
Cogliendo molto dello spirito del tempo, il libro parla di molestie, di consenso, di populismo, di giustizialismo, ma anche di cosa si prova quando le nostre azioni vengono analizzate dall’esterno e ci sentiamo personaggi di una narrazione altrui. Di questo e di altre cose abbiamo parlato con l’autrice.
Quali sono state le ispirazioni principali per la società e il mondo di Miden? Certa fantascienza? Mi ha ricordato un po’ l’atmosfera de Il prigioniero per esempio.
In realtà tra le fonti di ispirazione, più che certa fantascienza, ti direi che c’è certo cinema dei Paesi nordici, registi tipo Von Trier, Östlund, Kari, Vintemberg. In effetti Miden è stato il tentativo di trasformare un’idea di Nord Europa in una sorta di distopia. Un po’ il contrario di una puntata di Report, dove dopo un’inchiesta angosciatissima sul malfunzionamento dell’Italia si mostrava il contraltare idilliaco di un posto dove le cose funzionano bene. A me interessava mostrare invece le possibili crepe di quell’idillio.
Per la storia invece hai espresso più di una volta l’importanza di Coetzee: come mai hai pensato di trasferirla in una realtà così particolare? Cosa può dirci del nostro mondo una società come quella?
Coetzee è stato influente sotto vari aspetti, quindi non solo Vergogna – che può sembrare il riferimento più esplicito – ma anche Tempo d’estate per la struttura, e L’infanzia di Gesù per la creazione di un luogo da dove il rimuovere il passato. La “realtà particolare” è nata in maniera organica alla storia e l’ho utilizzata come sfondo artificiale dove far risaltare i conflitti che volevo raccontare. In questo senso Miden parlava già di questa società, perché è un luogo che fa parte del nostro Occidente, condensa una serie di stereotipi estremizzati di città e quartieri che cercano una propria ridefinizione in termini di conformismo etico.
Il riferimento a “La Gente” ha fatto anche pensare qualche commentatore a un riferimento a una città ideale post-M5S. Questo tipo di critica politica era nelle tue intenzioni?
Sì, in qualche modo sì. Ho cercato di creare un mix tra una socialdemocrazia scandinava avanzata e un populismo gentile e consapevole, che è come si presenta il M5S. In entrambi i casi mi sembrano modelli sociali in cui annichilire il conflitto attraverso una strategia dolce del consenso.
Ho trovato la lingua del libro molto asciutta, con punti di vista quasi distaccati nonostante le tematiche abbastanza drammatiche: è un’impressione corretta? Perché hai ritenuto che questo tipo di approccio al linguaggio potesse funzionare? Riflette anche un distacco “emotivo-igienico” che viviamo sulla nostra pelle?
Quello che tu chiami distacco emotivo-igienico a me sembra più un esercizio di autoanalisi, che ormai è entrato a far parte del nostro linguaggio e del modo di autorappresentarci e posizionarci nel mondo. Sento in continuazione persone che parlano di loro stesse riferendo le parole del proprio analista, pronte a una diagnosi in un certo senso autoassolutoria, per il fatto stesso di esserci arrivate, a una diagnosi. Nel libro ho estremizzato questa attitudine, perché fa parte del meccanismo stesso di funzionamento della società di Miden, quindi il linguaggio è mutuato da questa introspezione – dove le emozioni devono trovare un loro corrispettivo analitico – che le persone sono tenute a fare.
Pensi che il libro possa essere anche una riflessione sul consenso? Immagino che sia nato ben prima dello scandalo Weinstein e tutto quello che ne è seguito, però coglie sicuramente un certo spirito del tempo.
Sì, il libro è nato ed è anche stato chiuso prima dello scandalo Weinstein, però non volevo denunciare uno spirito di impunità, anzi. Mi spaventa molto di più un’ansia giustizialista, in questo senso. A me interessava indagare le contraddizioni del proprio desiderio, le forme di violenza che esercitiamo inconsapevolmente, l’incapacità di accettare che la nostra storia sia sempre una storia condivisa, e che quindi non ha molto senso rivendicare in maniera ideologica i nostri sentimenti come fossero prove incontrovertibili o una sorta di strategia difensiva dietro cui trincerare un assolutismo dell’ego.
Mi ha fatto riflettere su come il tema possa essere scivoloso anche a posteriori, quando la crudeltà è condivisa. Quando qualcosa all’inizio appare condiviso e consensuale ma poi rischia di non esserlo. È una questione complicata: esistono risposte universali? Conta solo il momento o anche il senno di poi?
Il punto per me non è arrivare – come accade nel libro – a un tribunale che possa giudicare un rapporto in prospettiva, o a una forma di punizione esemplare. Penso, però, che in un rapporto sia insita una dialettica sempre aperta, in questo senso una “prescrizione” su ciò che è avvenuto nel passato mi sembra un limite, sia da un punto di vista etico che cognitivo.
Un altro elemento fondamentale è quello del venire raccontati da altri; quando le tue azioni passano nelle mani altrui, il tuo punto di vista non è più di tanto importante. Questo spaesamento è uno dei nuclei cruciali del libro? Come ti sei approcciata al provare a raccontare cosa si prova quando si è sul banco degli imputati?
Prima citavo Tempo d’estate di Coetzee: per me quello è stato un libro fondamentale. La questione non è tanto sapere come ci vedono gli altri, o la paura del giudizio, quanto la possibilità – assolutamente affascinante – che la nostra vita, le nostre azioni, le nostre intenzioni possano diventare racconto, narrazioni multiple. Non per autocitarmi (anche se in effetti lo sto facendo) ma a un certo punto nel libro scrivo questa cosa: “Il narcisismo funziona anche nella denigrazione. L’importante è che si parli di te”. Ecco, questa forma di narcisismo che si fa narrazione attraverso lo sguardo altrui è una delle mie ossessioni letterarie.
In questo senso, il finale del libro (che non spoileriamo) mi ha colpito molto. Per tutto il romanzo ho avuto la tendenza a provare una certa empatia verso il protagonista, sia perché la storia è narrata anche dal suo punto di vista, sia perché l’altro punto di vista – quello della compagna – sembra piuttosto indulgente con lui. Non mi è stato chiaro fino alla fine quali potessero essere i tuoi sentimenti nei suoi confronti. Il finale serve a esplicitarli?
Ho avuto, e ce l’ho ancora, il timore che Miden sembrasse un libro troppo ambiguo. Probabilmente lo è. Quel finale non serve a risolvere questa ambiguità. A un certo punto ho proprio avuto la necessità di tentare di esprimere un punto di vista che fosse il mio sulla vicenda che stavo raccontando, e l’ho fatto attraverso un personaggio minore. Temo che nessuno lo abbia colto.
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