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Serve una moratoria sul parlare “da padre” 

Matteo Salvini negli studi Rai di Porta a Porta.

“Il mio cuore è vostro, prima dei miei figli poi vostro”. Barbara D’Urso, saluto standard al termine di ogni programma;
“Da mamma, io l’avrei fatta in un altro momento”. Alessia Marcuzzi, lite con Eva Henger a L’Isola dei famosi;
“Da padre dico che il problema si risolve con galera, castrazione chimica e ruspe per il campo Rom”. Matteo Salvini, tweet del 4 novembre 2017.

Matteo Salvini, come molti uomini della sua età, ha due figli. Ancora prima dei bacioni, degli abbracci, degli emoticon con cui disinnesca ogni critica dei suoi avversari politici sui social media (merito del bravo Luca Morisi che si occupa della comunicazione online) c’è quella stracca e abusata formula che da qualche mese ripete spesso su ogni piattaforma: lo dico da papà. La Guardia Costiera libica riporta 820 immigrati sulle sue coste? Salvini ringrazia “di cuore, da ministro e da papà”; un poliziotto spara per difendere un collega? “Non solo da ministro, ma da cittadino italiano e da papà sarò vicino in ogni modo possibile a questo poliziotto”; e ancora “da papà, prima che da segretario della Lega, sono solidale con le migliaia di insegnanti oggi in piazza, azzerati da sentenza assurda e da incapacità del governo”. E “una mamma che ha adottato due bimbi africani dice che i suoi figli hanno paura di me? Sbaglia, lo dico con affetto, da papà”.

Lo dice sui social, lo dice in tv. A febbraio all’Arena di Giletti in piena campagna elettorale precisava: “Sono padre. Chiedo solo un Paese più tranquillo. Ma gli intellettuali di sinistra ci vanno in pronto soccorso? Prendono i mezzi pubblici?”. È una precisazione che puoi mettere ovunque: “Da papà, non ho parole”. “Da papà, sono arrabbiato”. “Da papà, mi domando: ma siamo impazziti?”. Il 2 febbraio diceva a Dalla Vostra Parte: “Non auguro né a me, come padre, né agli italiani di avere Renzi o Di Maio come Presidente”. Forse abbiamo sempre equivocato lo slogan aiutiamoli a casa loro: era un grido d’aiuto domestico per padri in difficoltà.

Anche Matt Damon è padre. In un’intervista a Deadline circa il proprio coinvolgimento nel coprire Harvey Weinstein, Damon si è difeso dall’accusa di aver fatto pressione per bloccare un articolo, e ha poi usato l’abusata formula retorica: “Da padre di quattro figlie, questo tipo di molestie sessuali mi tengono sveglio la notte”. Naturalmente Damon intendeva dire che era sensibile all’argomento molestie perché lo toccava da vicino biograficamente; era il tentativo d’essere uno di noi, e non solamente un attore milionario privilegiato ma un amorevole padre di famiglia. Andrew Cuomo, governatore di New York, disse che per le sue tre figlie si augurava un mondo più sicuro. In campagna presidenziale Mitt Romney usò le proprie figlie per criticare la registrazione in cui Trump diceva che quando sei famoso le donne te la tirano con la fionda e le puoi afferrare dove meglio credi.

C’è però un problema. Se ti preoccupi solo in quanto padre che succederebbe nella malaugurata ipotesi fossi nulliparo? In fondo l’Italia ha una natalità spaventosamente bassa: dobbiamo aspettarci l’incapacità di qualsiasi astrazione e un futuro di gente che non sa prendere decisioni in quanto sterile? No, ovviamente. Provare sensibilità verso un argomento solo fin dove arriva la nostra esperienza diretta è molto limitante. Fortunatamente è possibile provare empatia anche in condizioni e situazioni in cui non ci troviamo o non ci siamo mai trovati. Non serve essere donne, omosessuali, con prole, o neri per difendere principi di uguaglianza, libertà e civiltà. Si è ancora più autenticamente liberali quando non ci tocca da vicino.

Per anni i ricchi e potenti di Hollywood hanno cercato di vendersi come simili a noi per non farci ridere quando ci raccontavano i loro problemi (il contrario di Johnny Depp, che in una lunga intervista per Rolling Stone sembra a metà tra il Re Sole e Orson Welles). Siccome la politica è la Hollywood per le persone brutte (con considerevoli eccezioni che confermano la regola come Obama, Trudeau e Sanchez), i politici hanno iniziato a usare gli stessi argomenti delle popstar. Se vinci con la narrazione di un mondo corrotto e governato da politici ricchi, distanti dai problemi veri, incapaci di connessione con quella parte del Paese che, pur facendo schifo, vota, non puoi che ricordare che sei un politico diverso. Sensibile. Umano. In fondo Macron, Merkel, May, Löfven, Juncker, Rutte sono tutti senza figli.

Ricordiamo ancora quel sublime momento di storia politica televisiva in cui Angela Merkel fece piangere una bambina siriana dicendole che i suoi genitori non potevano ricongiungersi con lei: perché mica poteva accogliere tutto il popolo siriano (poi ci ha ripensato e ha governato il processo migratorio, e ha perso consensi). Per quanto sia meglio dire “da papà”, rispetto a “da divorziato”, rimane il fatto che avere dei figli non fa di te una persona migliore o un politico capace. Lo dico da papà o lo dico da mamma sono formule comunicative di propaganda politica di chi si gioca la carta del genitore come a riempire il curriculum d’umanità. In fondo non è poi tanto diverso dire che si solidarizza con i migranti perché “potrebbero essere i miei figli” e dire che in quanto padri o madri si vuole fermare l’immigrazione clandestina perché è una tratta degli schiavi. I bambini si possono usare sempre, in qualsiasi modo: quando sono prigionieri a Gaza contro Israele, quando sono prigionieri ai confini col Messico contro Trump, quando muoiono affogati contro chi difende i confini, quando sono in fin di vita e la scienza non li può salvare, quando salgono su un palco per contrastare un governo o gli si insegna a cantar canzonette di propaganda, e a odiare, e a essere un po’ più tristi.

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