“La violenza verbale e scritta ha superato il livello di guardia e ormai coinvolge anche gli esponenti delle istituzioni e dei media. Fermiamoci prima che sia troppo tardi”. A lanciare l’appello è Francesco Rotondi, professore di Diritto del lavoro all’Università Liuc di Castellanza e co-fondatore dello studio di giuslavoristi LabLaw, attivo in alcune delle vicende più calde delle ultime settimane, dall’inquadramento dei lavoratori della gig economy all’affiancamento dell’ex-ad del Milan Marco Fassone nel contenzioso con il fondo Elliott. E lo fa richiamandosi al messaggio di Bruno Trentin, segretario della Fiom prima e della Cgil poi, che nel suo libro La città del lavoro (Feltrinelli) ricordava che il lavoro non è un diritto assoluto, bensì programmatico: esiste, in quanto esistono le imprese.
Avvocato, i problemi di salute di Sergio Marchionne hanno provocato reazioni molto forti sia sui social network, che sui giornali. Si è andati al di là dell’analisi e dei commenti sulla figura manageriale del ceo uscente di Fca-Fiat, tirando fuori dai cassetti impolverati espressioni come “padroni”, “operai sfruttati”, “capitale vorace” che sembravano appartenere ormai al passato. Che succede, sta tornando la lotta di classe?
A mio avviso queste idee e questo odio sociale non sono mai stati davvero superati in alcuni ambienti del sindacalismo di base e anche altrove. In uno scenario di difficoltà prolungate per molte famiglie e imprese italiane tornano a galla innescando una spirale che può rivelarsi molto pericolosa per il nostro Paese, per tutti noi.
La storia italiana insegna che gli anni di piombo non iniziarono con il primo proiettile che partì da una P38, bensì molto prima, quando i cattivi maestri iniziarono a professare e a diffondere nelle università e nelle chiacchiere con gli amici messaggi pieni di odio verso “i nemici di classe”. Poi presero il sopravvento gli allievi e fu la barbarie. Peraltro, il primo volantino delle Brigate Rosse fu rinvenuto alla Fiat, nello stabilimento di Cassino impegnato a integrare una classe operaia non abituata a lavorare nella catena di montaggio, nella fabbrica del XX secolo. Fiat, cambiamenti nel mercato del lavoro, accuse violente sui media: tre elementi presenti anche oggi. Dobbiamo preoccuparci?
Certo che sì, anche perché questa volta certi messaggi arrivano anche dai rappresentanti delle istituzioni: siamo al paradosso che è lo stesso potere ad aver dimenticato il peso delle parole.
A chi pensa in particolare?
Prendiamo l’esempio di Carlo Calenda, che da ministro si era rivolto agli imprenditori della Embraco dichiarando: “D’ora in avanti non ricevo più questa gentaglia perché ne ho fin sopra i capelli di loro e dei loro consulenti del lavoro italiani che sono qua”. Si rende conto della gravità di queste parole?
Mette Calenda, apprezzato da analisti di diverso orientamento per il pragmatismo dimostrato al governo, tra i cattivi maestri?
Sicuramente non aveva alcuna intenzione di alimentare la tensione, ma quando ricopri una posizione istituzionale come quella, hai il dovere di pesare le parole. Per venire ai giorni nostri, pensi alla scelta di chiamare l’ultimo intervento normativo Decreto dignità. Se sfoglia le slide del provvedimento disponibili sul sito del ministro, si parla di “dignità restituita ai lavoratori”. Quindi finora lo Stato non l’ha garantita? Siamo in presenza di un uso disinvolto delle parole, un atteggiamento molto pericoloso.
“Le parole fanno un effetto in bocca e un altro negli orecchi”, diceva Manzoni nei Promessi sposi…
Esatto. Il mio appello è ad abbassare i toni perché il rischio che qualche scheggia impazzita passi alla violenza fisica è oggi elevato.
Allora da dove ripartire? La sensazione è che se si riesce a trovare la strada per consolidare la crescita e allargare le opportunità occupazionali, si possa in qualche modo tornare alla normalità del confronto dialettico.
Riscopriamo il dialogo, a tutti i livelli. Nel 1993 nel nostro Paese è partita la fase della concertazione, che ha dato vita a una serie di accordi per ammodernare il mondo del lavoro: ha prevalso l’ascolto sullo scontro ideologico e sull’odio personale. Quella stagione è finita troppo presto, ma ci ha lasciato degli insegnamenti. Occorre riscoprirli, ricordando quanto la globalizzazione ha cambiato non solo l’economia, ma le nostre vite. Occorrono capacità di ascolto, disponibilità, pragmatismo, nella consapevolezza che il diritto al lavoro può trovare realizzazione se ci sono le imprese. Se queste chiudono, non c’è occupazione e perdiamo tutti, come Stato e cittadini.
Abbiamo lasciato per ultimo il giudizio su Marchionne, dato che ne hanno già parlato in tanti. Come si giudica un top manager dal punto di vista del lavoro, esistono parametri in qualche modo oggettivi?
I risultati parlano per lui: cosa era la Fiat quando ne ha preso le redini e come l’ha lasciata. È illusorio pensare di gestire un’azienda che si trova in oggettiva difficoltà prescindendo da un piano di ristrutturazione che comporti anche qualche sacrificio in termini occupazionali. Questi ci sono stati, ma sono serviti come base per il rilancio industriale e anche occupazionale di Fca-Fiat. Occorre un’operazione verità alla quale sono chiamati a partecipare i media, così come gli opinionisti e i politici. Se si ragiona sui numeri, si aiuta chi legge o guarda o ascolta a distinguere la verità dalle menzogne.
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