Alcune settimane fa ero seduto in un bar del centro di Milano assieme a un chief officer di un’azienda mia cliente, nota azienda del settore retail. Gli stavo dicendo che nei suoi negozi le commesse dedicano dal 4 al 7% del loro tempo utilizzando lo smartphone privato. Lui, stupito, mi ha chiesto: “Sei sicuro?”, e io ho risposto: “Certo, come sono sicuro che tu ora stai usando lo smartphone per leggere le mail. Le tue commesse sono messaggio-dipendenti come tu sei mail-dipendente. Per essere precisi, tu sei più dipendente di loro”.

Seccato, ha reagito così: “Non scherzare Alessandro, se invece di servire i clienti scrivono messaggi, perdiamo dei soldi”. A quel punto ho ribattuto dicendo: “Giovanni” – nome fittizio – “ho una domanda. Considera questa sequenza di numeri: 3,5,8,6,9. Qual è il numero successivo?”. Nei cinque minuti che sono seguiti ha mosso più volte la testa, probabilmente cercando di trovare la relazione tra i numeri e ha guardato il suo telefono per controllare se aveva ricevuto mail (ho contato 8 volte in 5 minuti). Alla fine si è alzato dicendo che non riusciva a trovare la soluzione. In quel momento ho puntato l’indice verso il menù appoggiato sul nostro tavolo indicando un numero, un 7.

La mia domanda si riferiva ai primi 6 prezzi del menù che era appoggiato sul tavolo di fronte a noi. La domanda lo aveva spinto a ragionare in termini analitici, lineari, impedendogli di notare che la soluzione era letteralmente di fronte ai suoi occhi!

Nelle aziende tutti ormai sanno quanto sia importante “essere creativi”. Siamo però così legati ad un modo di pensare lineare, che ci fa dimenticare come la creatività sia invece il risultato di un pensiero non lineare. Un esercizio che faccio nei workshop con i chief officer delle aziende con le quali lavoro – operanti nei mercati consumers – per introdurli al pensiero non lineare, è quello che io chiamo “il business game dell’acqua tropicale”. Presento il workshop spiegando che nelle acque tropicali i pesci piccoli rimuovono i parassiti dalla bocca dei predatori, solitamente pesci di grandi dimensioni. I pesci predatori frequentano delle “stazioni di pulizia” dove i pesci più piccoli entrano nelle fauci del pesce predatore. Dopo aver terminato la “pulizia”, i piccoli pesci escono illesi. Si tratta di un ecosistema certamente molto difficile da ricreare.

Dopo l’introduzione iniziale, chiedo ai dirigenti: “Se vi venisse chiesto di ricreare questo ecosistema per renderlo più efficiente” – parola magica per le orecchie di un dirigente – “sulla base di ciò che sapete e data la tecnologia oggi disponibile, come lo realizzereste?”. Di solito alcuni evidenziano che i predatori dovrebbero mangiare gli “addetti alle pulizie”. Altri, un po’ più sofisticati, fanno invece domande di questo genere: “Quanto è grande normalmente un gruppo di pesci predatori?”, “I loro obiettivi sono semplicemente l’igiene e la nutrizione? Oppure hanno obiettivi più ampi?”.

Io non conosco la risposta alla mia domanda (!), tuttavia penso che l’unico approccio che potrebbe funzionare è quello di provare modifiche incrementali: fare cioè esperimenti, e vedere cosa succede.

Solo una piccola minoranza di chief officer in realtà arriva alla stessa conclusione. La quasi totalità parla del tipo di dati di cui ha bisogno, di come raccoglierli e analizzarli. In altre parole, hanno paura di commettere errori. E questo è dovuto alla cultura che permea le loro aziende, dove gli errori sono la cosa peggiore che si possa fare, poiché ognuno è misurato solo sulla base del successo. Tutto questo però distrugge la creatività.

Tuttavia, negli umani la creatività è innata. La prima ricerca che lo ha mostrato chiaramente è stata realizzata da George Land nel 1968. Land somministrò un test di creatività a 1600 bambini di 5 anni, lo stesso test che veniva eseguito per essere assunti alla Nasa per le posizioni tecnico-ingegneristiche. Land testò nuovamente gli stessi bambini all’età di 10 anni e poi a 15 anni. Il team di ricerca confrontò quindi i risultati con quelli di un campione di adulti. Ecco le percentuali dei “geni creativi”:

  • anni 5: 98%
  • anni 10: 30%
  • anni 15: 12%
  • adulti (età media = 31): 2%

I risultati mostrano chiaramente che i bambini di 5 anni sono quasi tutti dei geni creativi, mentre quasi tutti gli adulti sono privi di creatività.

Ci diverte essere creativi?

Come hanno dimostrato le ricerche sulla creatività di Miháli Csikszentmihályi, quando alle persone viene chiesto di scegliere da una lista ciò che maggiormente le fa divertire, la risposta più frequentemente scelta è “realizzare o scoprire qualcosa di nuovo”. Csikszentmihalyi ha trovato valida questa risposta anche per ballerini, giocatori di scacchi e scalatori. Tutti concordi nell’affermare che ciò che li diverte maggiormente è il processo di scoperta di qualcosa di nuovo.

Condividiamo tutti una innata propensione a godere di tutto ciò che facciamo, a condizione che possiamo farlo in modo nuovo, scoprendo cioè qualcosa di nuovo nel farlo. Questo è il motivo per cui la creatività, non importa in quale ambito, è così piacevole.

E in cosa consiste il divertimento?

Per rispondere a questa domanda, Csikszentmihalyi ha studiato persone che fanno cose divertendosi, non per soldi né per fama. Giocatori di scacchi, scalatori, ballerini e persone con un lavoro “normale”, che dedicano molte ore alla settimana alla loro passione. Perché lo fanno? Parlando con queste persone, è risultato chiaro che ciò che le motiva sono le sensazioni che provano quando sono impegnate nell’esercitare la loro passione. Quelle sensazioni non sono provate quando bevono un drink in compagnia oppure quando acquistano qualcosa di valore.

Piuttosto, le provano nel corso di attività difficoltose, che richiedono alla persona di utilizzare tutte le proprie capacità e che coinvolgono elementi di scoperta e novità. Questo insieme di sensazioni è stato chiamato da Csikszentmihalyi “flusso”, poiché molte delle persone coinvolte nella ricerca lo descrivevano come qualcosa in cui è quasi tutto automatico, senza sforzo, ma anche con un elevato stato di consapevolezza.

La mia esperienza professionale mi porta a dire che i 3 elementi che più caratterizzano l’esercizio di una passione possono essere replicati anche nelle aziende operanti nei mercati consumer per stimolare la creatività delle persone di frontline – coloro che interagiscono con i clienti – e dei loro manager.

  • Obiettivi di micro-comportamento, anche difficili

Quando le persone sperimentano una passione, hanno degli obiettivi di micro-comportamento: un ballerino conosce il movimento successivo, uno scalatore sa a quale roccia aggrapparsi. Chi ha una passione sa anche che il livello di auto-efficacia aumenta quando si riescono ad eseguire comportamenti sempre più difficili, che mettono a dura prova. Tradotto per i chief officer: state chiedendo alle persone di frontline di sperimentare domande per aumentare il livello di attenzione dei clienti? State chiedendo di sperimentare movimenti del corpo per avvicinarsi fisicamente ai clienti? O ancora, state chiedendo di sperimentare una sequenza di domande abbinata a movimenti del corpo?

  • Feedback immediati dopo l’esecuzione del comportamento

Uno scalatore capisce immediatamente se il suo movimento è corretto o se invece potrebbe cadere a valle. Tradotto per i chief officer: i manager forniscono un feedback ai loro collaboratori per il comportamento che hanno tenuto un minuto prima? Lo fanno tutti i giorni?

  • Non c’è alcuna paura di sbagliare

Mentre le persone sperimentano una passione non hanno alcuna paura di commettere errori. Anzi, mentre una persona sperimenta la propria passione, cerca attivamente di sbagliare. È un modo attraverso cui apprende qualcosa di nuovo e rende la passione ancora più divertente. Tradotto per i chief officer: favorite la sperimentazione come normale prassi aziendale e tenete sempre un tono positivo verso coloro che sperimentano, soprattutto quando i loro risultati sono negativi.

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