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Alla moda italiana manca un aggregatore in stile Arnault. Ed è questa la sua forza

Donatella Versace saluta il pubblico al termine di una sfilata.

Sotto un altro. Dopo la vendita di Yoox, ceduta da Federico Marchetti a Richemont, lo shopping negli outlet del sistema moda è proseguito con l’acquisto della maison Versace da parte di Michael Kors che, sostenuto dai capitali di Wall Street prosegue nella missione – avviata con l’acquisto di Jimmy Choo – di costruire una leadership a stelle e strisce nel mondo del lusso. Un ambiente dominato dalle due superpotenze francesi, ovvero Kering e Lvmh, quasi inattaccabili grazie ai loro capisaldi nel Bel Paese, con Gucci, il gioiello in mano a François Pinault, e le gemme della corona di Bernard Arnault, le roi di Bulgari e di altre griffes.

L’Italia, insomma, rischia di trasformarsi in un campo di battaglia tra americani e francesi, in attesa che, magari attraverso qualche fondo speculativo, la grande asta continui con Trussardi e Ferragamo, altre due maison che non sembrano in grado di reggere l’urto di una sfida a 9 zeri. Con l’eccezione di Armani, che ha blindato l’impero in una cassaforte (ricchissima) sigillata a doppia mandata, l’Italia è al solito terra di conquista. Fa eccezione Missoni, rafforzata dall’alleanza con il Fondo Strategico Italiano, controllata dalla Cdp (costretto però ad agire in abbinata con i fondi sovrani del Golfo). Ma si tratta di un’eccezione all’interno di una regola non scritta, ma ferrea, fin dai primi anni Novanta: il made in Italy miete successi industriali sull’onda dei talenti dei nostri designer e stilisti ma, per una sorta di nemesi, fatica a trasformarsi in una una presenza societaria stabile, capace di sopravvivere al fondatore. O, tantomeno, a fare da hub per un sistema multimarca sul modello Louis Vuitton, capace di abbinare la potenza di fuoco finanziaria e commerciale di una potenza globale con la libertà espressiva garantita all’estro dei creativi.

In realtà, qualcuno in Italia ci ha provato a costruire un colosso sul modello Arnault, ancor prima del magnate di Francia. Ma Hdp, pur forte dei capitali del sistema Mediobanca (quella dei tempi dell’egemonia) e del supporto di Rcs (quando Internet non c’era quasi) fece un buco nell’acqua. La tragica fine di Gianni Versace, assassinato a Miami, fece abortire prematuramente un altro tentativo, probabilmente assai più promettente: la fusione della maison con Gucci, allora guidata da Domenico De Sole e decisa a sfuggire alle mire di Diego Della Valle e di Patrizio Bertelli (che, da moderni principi del Rinascimento, si sono svenati nella caccia al brand fiorentino). L’avventura finì così all’ombra del giallo. E da allora il sogno di dar vita nel sistema moda di un colosso multibrand tricolore è stata archiviata. Colpa delle banche? Codardia dei protagonisti di Piazza Affari? Insensibilità della politica?

Le spiegazioni possono essere tante, una volta accettata una premessa tutta da verificare: fino a che punto l’assenza di un tycoon con il passaporto italiano è un limite? Oppure, la capacità del sistema Italia di crescere in un sistema estremamente competitivo (un’eccezione in un Paese condizionato dai conflitti di interesse) è in realtà un punto di forza?  L’allarme (un po’ noioso) che segue le cessioni delle nostre griffes rischia di fornire un’immagine distorta delle condizioni del sistema moda Italia, una macchina da guerra che occupa 500mila addetti generando 24 miliardi di valore aggiunto, un decimo dell’intera industria manifatturiera italiana.

A leggere questi numeri, ricavati dalla recente indagine sul sistema moda di Intesa San Paolo, svanisce ogni possibile invidia per i primati di Bernard Arnault e di François Pinault, i due re del lusso europeo così attivi anche nel Bel Paese. Il primato finanziario dei colossi parigini non si è tradotto in una fuga di fatturato, o tantomeno di competenze. Basti dire che una quota rilevante, il 6,2% della produzione dell’alta moda francese, viene realizzato in Italia. Per averne una prova tangibile, per esempio, può bastare una gita in quel di Novara dove, a due passi dal centro, ha sede Zamasport, l’azienda che negli anni ’70 diede per prima fiducia al genio del giovanissimo Gianni Versace, che qui mosse i primi passi in Callaghan, una delle prime e più prestigiose sigle del pret à porter tricolore. Oggi l’azienda, che da sempre fa capo alla famiglia Greppi, non produce più con un proprio marchio ma resta un’eccellenza produttiva che serve le griffes, perlopiù (ma non solo) francesi, per cui cura le confezioni di eccellenza al punto che, tra le quinte delle sfilate di Parigi (o di Milano) si aggirano le sarte piemontesi per l’ultimo ritocco. Nel rispetto più assoluto della riservatezza, s’intende.

È un fenomeno diffuso, visto che il 70% circa delle esportazioni italiane della moda (pari a circa 51 miliardi di euro nel 2017) si posiziona sull’alta gamma. Nonostante la forte pressione concorrenziale, derivante dall’avanzata dei player asiatici, l’Italia mantiene così elevate quote di mercato, con punte del 21% nella gamma lusso di pelli e pelletteria. Il nostro Paese, insomma, si presenta ancor oggi come l’officina di punta della moda, capace di mantenere in casa il 78,7% della produzione contro il 60 per circa dell’industria francese. Certo, a questi primati contribuisce la famigerata “flessibilità”, vedi il lavoro nero denunciato dalla recente inchiesta del New York Times. Ma questo non offusca il fascino della Medusa.

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