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Come si inventa un eSport: Ubisoft ci spiega il caso Rainbow Six Siege

Un’immagine delle premiazioni al “Rainbow Six: Siege Invitational 2019”

Partiamo dai fatti: lo scorso week end, in una Montréal a 14 gradi sotto lo zero, si è concluso il “Rainbow Six: Siege Invitational 2019”, per i profani la più importante competizione dedicata allo sparatutto tattico di Ubisoft, Rainbow Six: Siege.

Chi non fosse avvezzo, sappia che è uno degli esport più praticati al mondo, con una comunità globale, già oggi di oltre 40 milioni di giocatori, in crescita costante. E questo è uno spunto che approfondiremo fra qualche riga.

Portandosi a casa circa 800mila dollari dei due milioni in palio, si sono riconfermati primatisti assoluti gli spagnoli G2 Esports, una corazzata che comincia ad avere i tratti di una dinastia, dopo il successo in quasi tutte le competizioni degli ultimi 12 mesi e quello al mondiale 2018 – quando i suoi cinque campioni giocavano per i Penta Gaming.

Un’immagine delle premiazioni al “Rainbow Six: Siege Invitational 2019”

Poco o nulla hanno potuto gli altri finalisti, i comunque prodigiosi Team Empire, squadra russa formatasi lo scorso agosto capace di portare il primo dei cinque match in programma allo storico traguardo di 22 round (i G2 ne hanno vinti 12, aggiudicandosi oltre alla prima mappa di gioco il predominio psicologico di tutta la finale, chiusa con uno spietato 3 a 0).

Altro fatto, forse il più significativo, è che la Pro League di Rainbow Six: Siege, un torneo dall’importanza inferiore solo all’Invitational, si disputerà a Milano, il 18 e il 19 maggio prossimi. Al Palazzo del ghiaccio, le otto squadre migliori al mondo si contenderanno un montepremi di 275mila dollari. Dai World Cyber Games del 2006, a Monza, è l’evento dedicato al gaming competitivo più importante mai organizzato sul suolo italiano.

“È il nostro riconoscimento alla comunità e allo sviluppo dell’esport in Italia – commenta Francois-Xavier Daniele, responsabile esport di Ubisoft – quando discutiamo di dove organizzare i nostri eventi più rilevanti, pensiamo sempre a come si possano stimolare le comunità che stanno crescendo di più”.

Via dal campanilismo, è proprio quest’attenzione al pubblico (pagante) a fare di Rainbow Six: Siege l’emblema di come, oggi, si possa creare un esport dal seguito e dagli incassi milionari. Una questione ben più ampia del settore videoludico, se si considerano i dati relativi al mercato mondiale del gaming competitivo: il rapporto annuale di Newzoo pubblicato la settimana scorsa stima un giro d’affari che nel 2019 sarà di 1,1 miliardi di dollari, con un incremento annuo del 26,7% e un’audience complessiva di 453 milioni di appassionati.

Per approfondire l’impatto su queste cifre di Rainbow Six: Siege, conviene però fare un salto indietro nel tempo.

È il dicembre 2015 quando il gioco viene pubblicato in tutto il mondo; si intuisce subito sarà un massacro, e non per la sua modalità principale, in cui due squadre da 5 giocatori ciascuna devono proteggere una bomba dall’incursione esterna o, se in attacco, farla saltare. Gravi problemi tecnici compromettono l’entusiasmo del pubblico. Il gioco sembra destinato a un fallimento precoce.

Quattro anni e un imponente “restauro” dopo, Rainbow Six: Siege è cresciuto fino ad accedere a quello che è il sacro Graal dell’industria del gaming, la fonte di eterna giovinezza cui ogni gioco elettronico oggi ambisce: è diventato un esport, una competizione internazionale disputata a livello professionistico da un crescente gruppo di atleti e seguita da un’ancora più consistente comunità di fan. Per numero, gli appassionati in Italia sono nella top 10 del mondo e al quarto posto in Europa.

Un’immagine delle premiazioni al “Rainbow Six: Siege Invitational 2019”

Merito di una sapiente miscela di ingredienti che Ubisoft ha avuto la sapienza e la costanza di comporre anno dopo anno: un aggiornamento continuo dei contenuti di gioco, che significa mappe e protagonisti nuovi, i cosiddetti “operatori”, ogni due o tre mesi. Un dialogo ininterrotto con la community di appassionati, condito da una sensibilità spiccata per i singoli territori (gli operatori sono argutamente distribuiti per nazionalità e talenti). Soprattutto una cura maniacale dell’ecosistema competitivo, mai leso dalle implementazioni tecniche.

In sintesi, Ubisoft ha saputo capitalizzare l’affetto per il proprio gioco e risolvere su suggerimento degli appassionati una criticità via l’altra. Rainbow Six: Siege è l’esempio perfetto di una passione imposta dall’alto, ma guidata attraverso gli stimoli dal basso.

“Ciò che conta nell’esport è l’engagement – conferma Daniele – l’engagement dei giocatori, perché si applicheranno sempre di più per diventare i migliori al mondo, e l’engagement della nostra community, perché sappiamo che qualcuno guarda otto ore di Rainbow Six ogni giorno. Coinvolgere sempre più persone nel nostro ecosistema competitivo è la chiave: siamo convinti si possa trovare il torneo o il format giusto per ogni comunità ed è questa la direzione che seguiremo”.

È un’indicazione valida per tutto il settore: “gli esport devono trovare il modo di costruire e accogliere un nuovo pubblico, meno vicino al gioco. In questo senso, le discipline tradizionali sono un riferimento eccellente: puoi facilmente comprendere una partita di calcio anche se non ci giochi, perché hai riferimenti e strumenti per farlo, come replay, analisi e commenti. Gli esport devono svilupparsi per non creare barriere tra player e spettatori. Questo è il futuro”.

Poco più di un anno fa, Ubisoft ha esteso le competizioni di Rainbow Six: Siege anche all’Asia Pacifico. Lo scorso week end, due dei sedici team finalisti arrivavano da lì, compresa la rivelazione Nora-Rengo, piccolo “Davide” giapponese capace di eliminare il “Golia” Fnatic, fra le organizzazioni esportive più importanti al mondo. Anche questi sono fatti da cui partire.

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