corridoio di un museo
Innovation

La rivoluzione dei (pochissimi) musei italiani: il videogioco

corridoio di un museo
(Shutterstock)

di Pasquale Sasso

Se, oggi, alcune persone sostengono ancora che i musei rappresentino “luoghi noiosi e polverosi” si sbagliano di grosso. Anche se l’ICOM lo definisce come “un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, istruzione e diletto”, negli ultimi anni l’istituzione museo si sta caratterizzando, all’estero più che in Italia, come un luogo di innovazione e di sperimentazione di nuovi linguaggi. Un esempio di questa forte spinta innovativa che hanno fatto registrare alcuni importanti musei internazionali, è stata l’intuizione di introdurre, all’interno delle loro strategie di audience development e audience engagement, il ricorso a uno strumento considerato fino a questo momento agli antipodi: il videogioco.

Secondo i dati resi noti da AESVI (Associazione Editorie Sviluppatori Videogiochi Italiani) nel mondo, l’industria del videogioco realizza un fatturato complessivo superiore a quello fatto registrare dall’industria della musica e del cinema messi insieme; infatti, nel 2018, a poco più di quarant’anni dalla sua nascita, questa industria creativa è stata interessata a livello mondiale da numeri molto interessanti, come i circa 140 milioni di dollari di fatturato (+13% rispetto al 2017) e i 2,3 miliardi di videogiocatori, il 33% della popolazione mondiale (dati Newzoo). Nel 2017, il 57% degli italiani ha giocato ad almeno un videogioco, percentuale pari a 17 milioni di gamer. Di questi, il 59% sono uomini e per il 40% hanno un’età tra i 25 e i 54 anni. Infine, i gamer italiani hanno generato un giro d’affari di 1,48 miliardi di euro, il triplo di quello del cinema (dati AESVI).

Se le strategie di audience development dei musei hanno l’obiettivo di ampliare e diversificare i loro pubblici, questi dati dimostrano che il videogame rappresenta uno strumento efficace per raggiungere quella fascia di persone (soprattutto i più giovani) che compongono la nutrita schiera dei cosiddetti “non visitatori”.

Nel mondo non esistono moltissimi casi di sinergie tra questi due settori ma alcuni musei, del calibro del MoMa di NewYork e del British Museum di Londra hanno sperimentato, in modo diverso, questa nuova forma di linguaggio. Infatti, mentre il museo newyorkese ha integrato all’interno delle sue collezioni queste vere e proprie produzioni artistiche, il British di Londra ha realizzato un videogioco sviluppato su diversi livelli e ambientati in diversi periodi storici,  rivolto a ragazzi dai 9 ai 14 anni di età.

In tutto questo, l’Italia? Per la prima volta, il nostro Paese non è rimasto a guardare e la cosa più interessante è che il primo museo a sperimentare questa nuova forma di interazione con i pubblici, non è stato un museo di arte contemporanea o dedicato alle tecnologie (naturalmente più inclini allo sviluppo di nuovi linguaggi), ma un museo archeologico: il Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN).

Infatti, nell’aprile del 2017, il direttore del MANN Paolo Giulierini ha presentato Father and Son, il primo videogioco prodotto da un museo in Italia. Il videogioco, ambientato nella città di Napoli e nelle sale del museo, è nato dall’intuizione del prof. Ludovico Solima ed è stato realizzato dall’associazione Tuo Museo di Milano, coordinata dal game-designer Fabio Viola. Rilasciato in versione iOS a Android, in sei diverse lingue oltre l’italiano (presto sarà disponibile la versione in dialetto napoletano, realizzata con la collaborazione di alcuni giovani ragazzi dei quartieri più difficili di Napoli), a quasi due anni dal suo lancio, ha  fatto registrare quasi 4 milioni di download ed è stato scelto da Apple su tutti gli store mondiali, come prodotto vetrina.

A seguito dell’esperienza del museo napoletano, anche un altro museo italiano (sempre del sud) ha colto le opportunità straordinarie offerte da questo strumento; è il caso del Museo Archeologico Nazionale di Taranto che, con il videogame Past for Future,  ha voluto scommettere (sempre con Fabio Viola), su questa avventura.

Perché un museo dovrebbe progettare un videogioco? Le risposte sono molteplici, proverò a offrirne alcune:

  • migliorare e rafforzare la sua immagine: come in precedenza sottolineato, i museo sono percepiti (soprattutto dai più giovani) come luoghi statici e noiosi. La realizzazione di un videogioco può contribuire a cambiare questa percezione;
  • creare un legame emozionale con i suoi visitatori attuali e potenziali: il videogioco rappresenta una forma di story-doing, in grado di proiettare il giocatore in una dimensione parallela, fatta da diversi contesti storici. Inoltre, come nel caso di Father and Son, molti giocatori hanno rivisto nella storia dei protagonisti del gioco, la loro storia;
  • incrementare il suo livello di accessibilità: la realizzazione di un videogioco rappresenta una possibilità per incrementare l’accessibilità digitale del museo, l’accessibilità cognitiva (come strumento di integrazione tra diverse culture) e l’a sua accessibilità fisica, in quanto l’esperienza del gioco si modifica anche in relazione alla visita fisica del museo da parte del giocatore;
  • migliorare la sua capacità di attrazione: il videogioco può prevedere, come nel caso del MANN, che alcuni livelli vengano sbloccati con la presenza fisica nel museo; ma, in linea generale, l’esperienza napoletana dimostra che il videogioco è stato in grado di generare oltre 20.000 nuovi ingressi, con relativi incassi da bigliettazione.

In conclusione è possibile affermare che, ogni giorno, i musei si trovano a dialogare con pubblici diversi e pochissimi di essi stanno realizzando una vera a propria rivoluzione.

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