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Cesare Romiti e le sfide sospese del capitalismo italiano

Cesare Romiti
(Photo by Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

In morte di Cesare Romiti la stampa italiana ha giustamente riconosciuto al manager la sua capacità di affrontare i terribili anni del terrorismo e le sue doti di leadership, ma un capo azienda va giudicato anche dai risultati e dalle strategie.

Il manager di ferro, per lungo tempo a capo della Fiat (dal 1976 al 1998), si è trovato a svolgere il suo incarico negli anni del capitalismo italiano più asfittico, a livello di grandi imprese incapace di cambiare, di uscire dalla logica delle relazioni ed entrare nell’arena aperta della concorrenza internazionale.

Il giornalista economico Marco Borsa nel 1992 fu lucido nel pronosticare la fine dei grandi imprenditori del «salotto buono»; nel suo formidabile volume Capitani di sventura trovò un filo conduttore nelle disavventure dei capitani d’industria. Scriveva nel sottotitolo: «Pirelli, De Benedetti, Agnelli, Gardini, Romiti, Ferruzzi: perché rischiano di farci perdere la sfida degli anni ’90».

Borsa riteneva Cesare Romiti e altri non all’altezza delle sfide degli anni Ottanta, che non venivano – come negli anni Settanta – dall’arroganza sindacale, dall’alta inflazione o dall’aumento di prezzo del petrolio. Le difficoltà stavano nel cuore delle imprese, in organizzazioni mal gestite, troppo verticistiche e burocratiche, nella forza-lavoro mal pagata e poco motivata. Inoltre la qualità dei prodotti, in mancanza di idee innovative e di investimenti, lasciava a desiderare rispetto a quanto era in grado di fare la concorrenza internazionale, agguerrita su progettazione, produzione, marketing, logistica e servizio al cliente. «La grande impresa italiana – scriveva – ha un vizio d’origine: nata e cresciuta all’ombra della spesa pubblica, essa ha sempre coltivato la protezione statale come strategia fondamentale, nell’interesse della ristretta oligarchia imprenditoriale che ne era proprietaria: i padroni traevano vantaggi personali dai rapporti con lo Stato e non avevano certo bisogno di preoccuparsi troppo della fragilità delle loro aziende, poco esposte alla concorrenza».

Sono del 1992 le Considerazioni finali lette da Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia, nelle quali si accusano gli imprenditori di pigrizia. Il suo lessico evidenzia «lentezze d’iniziativa di parte delle imprese», la mancanza dello «scatto di volontà», la necessità di una maggiore «promozione della concorrenza», che «non è laissez faire, né anarchia, né uno stato di natura. È affidata all’ordinamento, alle istituzioni, secondo modalità diverse da settore a settore». Ciampi si attendeva dagli imprenditori «uno slancio innovativo che innalzi, nella qualità dei prodotti e nei modi di produrre, la capacità competitiva dell’impresa italiana». Invocava l’azione e il «moto degli animi», consapevole di quanto fosse alta la posta in gioco anche per le generazioni successive.

Ma se davvero si vuole cercare un passo falso nell’opera di Cesare Romiti – e della famiglia Agnelli che glielo permise – bisogna andare all’estromissione di Vittorio Ghidella nel 1988, l’ingegnere dell’automobile, allora a capo di Fiat Auto, capace di creare modelli di successo che la Fiat non è più riuscita ad eguagliare: la Uno (1983) – un successo mondiale fin dalla presentazione a Cape Canaveral -, la Tipo, la Croma, la Thema, la Y10.

Cesare Romiti diversificò da lì nei settori più diversi, dalle costruzioni (Cogefar) all’energia, dalle assicurazioni ai treni, passando per l’editoria, privando però l’automotive degli investimenti necessari per competere con i colossi tedeschi. Per Fiat fu l’inizio di un periodo travagliato dal quale si risollevò solo con l’arrivo di Sergio Marchionne (giugno 2004, ben 16 anni dopo).

Con Cesare Romiti se ne va un alto rappresentante della grande impresa privata italiana, divenuta tuttavia incapace di tener testa alla competizione mondiale una volta caduto il Muro di Berlino e all’avvento dei tenaci competitor del Sud-Est asiatico. Ci rimangono le “multinazionali tascabili” (definizione coniata da Peppino Turani), ma senza la grande impresa l’Italia rimane affetta da nanismo e non all’altezza delle sfide di innovazione e di produttività.

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