Gli chef possono essere artisti? Guardando le creazioni di Massimo Bottura, non c’è dubbio. Se Michelangelo in un blocco di marmo vedeva le figure che avrebbe scolpito, così Bottura, negli ingredienti, vede opportunità per eseguire opere straordinarie. È il processo creativo di chi non si limita a portare in cucina il massimo della qualità e della tecnica, ma rivoluziona le tradizioni secondo il proprio istinto, raccontando storie che dialogano con il palato. Conosciuto da tutti come lo chef visionario che ha reso la sua Osteria Francescana il miglior ristorante al mondo, Massimo Bottura è un profondo conoscitore di arte, filosofia e musica. E questi tre elementi diventano ingredienti della sua cucina, dai quali si lascia guidare per creare i suoi capolavori da gustare. Oggi, Bottura ci rivela la sua ricetta per ripartire dopo la crisi che negli ultimi mesi ha colpito tanti settori, compreso il mondo della ristorazione.
Cosa è successo con l’arrivo del Covid-19?
Il virus è stato un disastro che ci ha colpiti al culmine del successo. A marzo 2020 avevamo l’Osteria Francescana, Franceschetta58 e Casa Maria Luigia piene con enormi liste d’attesa. Poi, all’improvviso, abbiamo dovuto resettare tutto. Tuttavia le difficoltà, come questa pandemia, non devono servire come scuse per non fare. Così, nei giorni dell’isolamento in casa, è nata “Kitchen Quarantine”, l’idea di mostrare in diretta Instagram cosa cucinavo per la famiglia. Sapevo che in quel momento bisognava fare il massimo con il tempo che ci era stato regalato; in fondo non c’è niente da pensare: la creatività e l’apertura mentale sono già dentro di noi. Per essere contemporanei è fondamentale tenere sempre gli occhi e le orecchie aperti.
Come immagina la ristorazione nei prossimi mesi?
La distanza sociale sta diventando la norma, tuttavia non credo si possa vivere in un mondo senza contatto umano. Troveremo nuovi modi di crearlo, magari attraverso gesti, sguardi, espressioni. Così come ci siamo abituati a viaggiare diversamente dopo l’11 settembre, ora reinventeremo le nostre vite tenendo conto della distanza sociale. La sfida principale oggi è garantire la sicurezza, dei clienti e della squadra. Questo significa mantenere le distanze, prevedere mascherine e ingressi separati, sanificare l’aria, e utilizzare gel igienizzante. Ciò che ognuno farebbe con la propria famiglia, noi ristoratori lo facciamo anche con la nostra famiglia allargata.
Un consiglio ai ristoratori italiani in questa fase?
Munirsi di grande coraggio per sperimentare nuove idee e credere in ciò che si sta facendo. Per avere successo bisogna essere ossessionati. L’ossessione ti permette di andare in profondità più di ogni altra cosa. È più forte delle passioni struggenti: la prima cosa a cui pensi al mattino e l’ultima alla sera. Siamo stati tutti in difficoltà, me compreso. Quando ho aperto l’Osteria Francescana, nel 1995, il pubblico non ha apprezzato subito le mie idee. Volevo rivoluzionare la cucina tradizionale, ma non avevo fatto i conti con l’Italia, un Paese molto conservatore in cucina – specialmente l’Emilia Romagna, la Food Valley. Così, per circa sei anni, ho passato serate anche con due coperti o nessuno. Mi davo forza credendo nelle mie idee, senza dare troppa importanza al business. Noi ristoratori italiani siamo fatti così: la cucina è una vocazione più che un’attività. Tuttavia, siamo i migliori a cavalcare i sogni e maneggiamo l’irrazionale meglio di altri. Così ho avuto la forza di proseguire, anche dovendo vendere tutto il possibile, compresa l’amata Harley. L’attenzione su quello che stavo facendo arrivò solo nel 2001. E fu del tutto per caso: un incidente stradale a Modena nord portò il più importante critico gastronomico italiano a fermarsi da noi. La relazione fu straordinaria e mi portò a vincere la prima stella Michelin e i premi per il miglior pranzo e giovane cuoco dell’anno. Da lì tutto è cambiato.
Come si raggiunge il successo partendo da una difficoltà?
Bisogna concentrarsi nel fare cose belle, perché dopo momenti difficili il mondo ha bisogno di bellezza. Come ci ricorda Albert Camus, la bellezza non fa le rivoluzioni, ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei. In questo caso, il virus è la rivoluzione che ha cambiato le nostre vite. E la bellezza servirà a ricostruirle, perché nessuno vuole vivere nel brutto. A volte, l’ispirazione o l’idea geniale arriva da dove meno te l’aspetti. Io sono entrato nella gastronomia senza una ragione precisa. Era il 1986, lasciai gli studi da avvocato per aprire una piccola osteria a Campazzo di Nonantola, vicino Modena. Una piccola osteria con grandi sogni. Quei sogni servirono a riempire l’osteria quasi ogni sera. Da lì ho intrapreso il percorso che mi ha portato, dieci anni dopo, all’Osteria Francescana. Se la porta dell’inaspettato fosse stata chiusa, avrei continuato a studiare legge e forse sarei diventato avvocato.
Cosa ha rivoluzionato la sua idea di cucina?
L’esperienza di Campazzo mi ha permesso di conoscere quattro persone fondamentali per diventare quello che sono oggi. Prima di tutto Lidia Cristoni, la cuoca modenese che mi ha cresciuto professionalmente: è lei che mi ha insegnato a trattare il personale come una famiglia. Poi Georges Coigny, chef pluri-stellato da cui ho appreso la cucina classica francese, e Alain Ducasse, che mi ha trasmesso l’ossessione per la qualità. Tuttavia, il mio pensiero è profondamente cambiato dopo aver conosciuto mia moglie Lara a New York. Con lei ho imparato a guardare l’arte in modo diverso. Prima pensavo che gli artisti fossero finiti con Duchamp e i futuristi. Lara mi ha mostrato invece come i contemporanei avessero iniziato a imprimere nella tela il proprio pensiero più che la sola capacità tecnica. Con questa nuova mentalità, nel 1995, ho aperto l’Osteria Francescana. I piatti erano sempre legati al territorio, ma si esprimevano in modo emozionale e provocatorio. Nascono così “Ricordo di un panino alla mortadella“, “I tortellini camminano sul brodo” e il croccante di foie gras con cuore di aceto balsamico. Questi piatti oggi sono delle icone, ma allora venivano guardati con scetticismo.
Cosa significa essere contemporanei in cucina?
Riscoprire la tradizione portandola nel futuro. Tornato da New York, nel 1995, avevo in testa idee completamente diverse. Prima la cucina era manierismo: imparare la tradizione, scegliere i migliori ingredienti classici, accostarli all’avanguardia del momento per ottenere un prodotto di successo. Dopo, il processo si era completamente stravolto: non volevo portare in tavola tecnica, ma idee. Questa è la filosofia che porto in cucina: inizio da una tradizione seduta su secoli di storia e la reinterpreto con il mio pensiero contemporaneo. Rinnovare una tradizione significa prendere il meglio di essa e portarlo nel futuro. Esattamente come hanno fatto i cinque artisti Chia, Clemente, Cucchi, Paladino e Di Maria, dando vita ad uno dei movimenti più importanti del secolo scorso.
Ci racconta la storia di uno dei suoi piatti?
Prendiamo “Oops! Mi è caduta la crostatina al limone“: qui il processo creativo nasce da un errore. Dovevamo servire una crostata al limone agli ultimi due ospiti in sala. La crostata era normale nell’estetica, ma nell’etica già rivoluzionaria perché stava rompendo il confine tra dolce e salato. Prima di uscire dalla cucina, al sous-chef Takahiko Kondo cade accidentalmente la crostata. Mentre la cucina si ammutolisce, guardo a terra e vedo qualcosa di meraviglioso: un modo di esprimere il Sud Italia. Nella crostata c’erano capperi di Pantelleria, bergamotto calabrese, limoni di Sorrento, mandorle di Noto… e un gesto geniale ha reso visibile l’invisibile. Un piatto architettonicamente perfetto non trasmette nulla. Uno che ha un’imperfezione, ma che nel sapore, al dialogo col palato, crea un impatto emotivo, vale molto di più. Ecco come da un errore nasce un modo di trasmettere emozioni. E un piatto diventa poesia. Ricostruiamo altre due crostatine come quella che era caduta e vado a servirle io, improvvisando che il menu degustazione “Vieni In Italia Con Me” si sarebbe concluso con un dessert che rappresenta il Sud Italia. Gli ospiti, due giornalisti, guardano confusi le crostatine disintegrate. Assaggiano e iniziano ad applaudire. Da quel momento abbiamo deciso di servire la crostata così e oggi è un’icona della gastronomia mondiale.
Cosa ispira le sue creazioni?
Mi guida un palato mentale che ho sviluppato durante 35 anni di lavoro, essendo esposto alle materie prime, alle tecniche e ai pensieri più innovativi. Le quattro cucine più importanti al mondo sono quella italiana, francese, giapponese e cinese. La francese nell’approccio è simile alla cinese: grande tecnica ed elaborazioni che vanno oltre la materia prima. L’italiana invece è più vicina alla giapponese: ossessione per la qualità e una tecnica che manipola la materia quanto basta per farla esprimere. La nostra cucina parte da semplici ingredienti che vogliono diventare qualcosa di più.
In quali altri progetti è impegnato?
L’Osteria Francescana non è solo un ristorante. La vedo come una bottega rinascimentale dove si fa cultura, abbracciando tante dimensioni e fasi della vita. Siamo diventati ambasciatori della nostra terra, portando il turismo gastronomico a scoprire la campagna emiliana. Formiamo tantissimi giovani e ora ci occupiamo anche del sociale. Lo spreco alimentare è un tema che va preso molto sul serio. Partiamo dai numeri: siamo circa 7 miliardi sul pianeta e produciamo cibo per 12, sprecandone un terzo. Nonostante ciò, ci sono 860 milioni persone che soffrono la fame. Allora un cuoco contemporaneo deve porsi il problema e trovare una risposta. Con “Kitchen Quarantine” ho mostrato come si può non sprecare nulla in cucina. Con “Food for Soul” abbiamo creato luoghi dove combattere lo spreco alimentare e l’isolamento sociale. Nei nostri refettori, curati da artisti, architetti e designer, gli chef si ritrovano per creare pasti meravigliosi, nel sapore e nell’anima. Il nostro progetto è cresciuto e ora abbiamo refettori a Milano, Modena, Bologna, Napoli, Rio de Janeiro, Parigi, Londra, Lima e Mérida in Messico. Il nuovo menù dell’Osteria Francescana invece nasce da un’altra mia passione: la musica. In particolare i Beatles e Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Il processo creativo può nascere da qualsiasi cosa. Basta lasciarsi ispirare dalla bellezza e tenere la porta aperta all’inaspettato.
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