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A volte ritornano: perché dopo decenni l’inflazione è di nuovo protagonista nelle economie avanzate

Articolo tratto dal numero di agosto 2021 di Forbes Italia. Abbonati!

A cura di Vittorio Gaudio direttore asset management development di Banca Mediolanum

Chi, magari non più giovanissimo, osserva a livello globale i fatti economici di questi tempi straordinari, può provare una strana sensazione di déjà vu, un ritorno ad anni lontani del secolo scorso: non solo i venti di guerra fredda tra superpotenze, non solo gli appelli ad un maggiore intervento degli Stati nell’economia, ma anche la ricomparsa dell’inflazione. Un fenomeno che comporta la perdita di potere d’acquisto e che un tempo era tra i più temuti da cittadini e risparmiatori. Da molti anni era ormai ritenuto insignificante, se non scomparso, tanto che, sin dalla crisi finanziaria del 2008-09, le banche centrali si sono prodigate a combattere il suo opposto: la deflazione. Per le autorità monetarie, si doveva e si deve tuttora evitare la deflazione, in quanto l’attesa di riduzioni del livello dei prezzi dei beni porta i consumatori a rimandare le decisioni di acquisto, creando così ulteriori cali e peggiorando ulteriormente la congiuntura economica e l’occupazione. Negli ultimi decenni il controllo dell’inflazione, sino alla sua sostanziale assenza, è stato favorito da tendenze di più lungo termine dell’economia globale come la globalizzazione e la dislocazione dei fattori produttivi verso le aree a più basso costo. Ma anche l’invecchiamento della popolazione nei Paesi avanzati, la rivoluzione digitale e Internet, l’abbondanza di materie prime, soprattutto energetiche, hanno avuto un ruolo. Questo era il mondo prima dello shock della pandemia da Covid-19, che sta producendo impatti profondi nel sistema economico, di cui la ripresa dell’inflazione è uno dei più appariscenti. 

Partiamo dal dato che ha fatto scalpore: negli Stati Uniti, proseguendo una tendenza già emersa nei mesi scorsi, a maggio l’inflazione al consumo (i prezzi finali dei beni) è salita al 5% su base annua, il valore più alto dall’estate del 2008 e che supera decisamente il livello, il 2% medio, considerato ottimale dalla Federal Reserve, la banca centrale statunitense. Le ragioni sottostanti a questo strappo dell’inflazione sono molteplici. Dal lato della domanda, la rapidità nella messa a disposizione di vaccini e l’adozione ovunque di politiche straordinarie, monetarie e fiscali, stanno generando un forte rimbalzo di consumi e di investimenti. La conseguenza è una crescita del Pil mondiale superiore alle attese (stimato al 6% quest’anno), con riflessi immediati di aumento della domanda e dei prezzi delle principali materie prime (dal petrolio, al rame, ai metalli rari utilizzati nella riconversione verde dell’economia). Ancor più sorprendente, però, è quanto sta accadendo sul lato dell’offerta: di fronte alla chiusura forzosa del sistema economico, le imprese avevano ridotto drasticamente la capacità produttiva, decisione che al riaprirsi anzitempo della domanda ha provocato enormi colli di bottiglia, sia nella logistica che nei trasporti, sia nella produzione di componenti, ad esempio i semiconduttori, essenziali non solo nella nuova economia digitale, ma anche in industrie più mature come l’automotive. Anche nel mondo del lavoro si sta assistendo a fenomeni del tutto inediti: la carenza di offerta di lavoro, con possibili effetti sul rialzo dei salari, nasce dall’insufficienza di risorse umane nelle nuove professioni emerse nel periodo della pandemia (tecnologia, cambio climatico, infrastrutture, nuovi stili di vita), come pure dalla erogazione di sussidi che disincentivano l’accettazione di mansioni con retribuzioni più basse.

Oggi, sulla base di queste concause, l’interrogativo cruciale riguarda la durata di questa fase di ripresa dell’inflazione: situazione transitoria o cambio strutturale di rotta, dopo molti anni della cosiddetta disinflazione? Gli attori centrali nel gioco economico, come la Federal Reserve e la Banca centrale europea, sembrano disposti a tollerare questo surriscaldamento dei prezzi senza assumere contromisure restrittive, quali aumenti dei tassi o riduzioni della liquidità. La convinzione è che gli squilibri tra domanda e offerta sottostanti siano transitori e in via di normalizzazione nei prossimi mesi e che in questo momento sia prioritario il supporto monetario per uscire dalla situazione pandemica e sostenere una crescita solida, anche a costo di dimenticare per qualche tempo il tradizionale impegno di rigore anti-inflazione. 

I mercati finanziari hanno sinora reagito alla comparsa dell’inflazione in modo relativamente composto: i rendimenti dei titoli di Stato a lungo termine, in particolare negli Stati Uniti, avevano anticipato nei mesi scorsi la nuova tendenza, mostrando un rialzo significativo dai livelli minimi del 2020, ma restando comunque ancora storicamente contenuti (il titolo decennale del Tesoro Usa rende oggi appena l’1,5% lordo). Gli indici di Borsa, invece, sembrano concentrarsi sugli aspetti positivi del fenomeno inflazione: l’aumento dei prezzi è un sintomo di una economia globale in ripresa, può avere effetti benefici su fatturati e utili delle aziende quotate, e quindi non è visto come un ostacolo alla prosecuzione della tendenza rialzista dei mercati azionari in essere da oltre un anno. Nel caso in cui il livello dell’inflazione, soprattutto oltreoceano, restasse in tensione nei prossimi mesi, l’attenzione di osservatori e investitori si focalizzerà sul comportamento delle banche centrali, al fine di comprendere se la lunga stagione dei tassi di interesse prossimi a zero e delle politiche monetarie espansive sia prossima al termine, con effetti sicuramente significativi per l’andamento dei mercati.

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