di Federico Silvio Bellanca
Chiunque di noi si trovi a pensare al mondo della cucina, tende in maniera quasi automatica a segmentare l’offerta ristorativa in base a molteplici criteri, come ad esempio il prezzo, l’offerta, il target di clientela. Non a caso esiste un intero vocabolario atto a definire i vari ruoli (ristoratore, chef, oste, pizzaiolo, paninaro…) e le varie tipologie di ristorante (fine dining, trattoria, etnico…).
Curiosamente, se andiamo a indagare sul mondo del bar non troviamo una situazione analoga. In linea di massima chi lavora in un bar è un barista, e forse si specifica che è un barman se il locale è a trazione serale e propone cocktail. Una situazione curiosa visto che un’ampia parte della popolazione riserva un pasto al ristorante solo a determinate occasioni (ad esempio trasferte lavorative, viaggi oppure per festeggiamenti) mentre in un Paese come l’Italia entrare in un bar è un’abitudine comune, al limite del quotidiano. Guardando nella direzione del bar con occhio analitico, scopriamo infatti che nel nostro Paese la concezione classica di quello che era questo luogo sta evolvendo, proponendo da un lato spazi sempre più multifunzionali, capaci di ampliare l’offerta in maniera sempre più competitiva partendo dalle classiche colazioni, fino ai pranzi e agli aperitivi, mentre in direzione opposta notiamo una tendenza alla specializzazione, a un virare in direzione di locali con un’offerta sempre più ricercata a livello sia tecnico che gustativo, bar che possano permettersi dunque prezzi più alti per una clientela più ricettiva ed educata al consumo.
Questa crescita ha portato alla nascita degli speciality coffee oppure dei cocktail bar puri, e all’utilizzo di un termine che sempre più spesso viene utilizzato per definire la filiera che unisce aziende, distribuzione e locali, ovvero “bar industry”. Figli non casuali di questo mondo sono i nuovi imprenditori del bar, capaci di cambiare in pochi anni il proprio ruolo, di implementarlo, diventando a loro volta creatori di prodotti, brand e servizi per altri bar e non solo, spostandosi con dinamicità da un anello all’altro della filiera.
Ecco la storia di tre realtà italiane che hanno fatto il salto, più una straniera che potrebbe indicare la direzione del futuro.
Jerry Thomas Project
Senza il lavoro del team di Jerry Thomas la miscelazione italiana sarebbe indietro di dieci anni. Sono stati loro a rompere le regole del bar in Italia quando nel 2010, di ritorno da differenti esperienze all’estero, decisero di dare vita a un piccolo club nel cuore della capitale, nato inizialmente come laboratorio di confronto e di formazione (anche oggi i corsi “Jerry Thomas Educational” sono tra i più prestigiosi in Italia), e diventato poi primo “secret bar” Italiano. Se il locale è un punto di riferimento per gli appassionati del bere bene (ben sei volte nella classifica dei 50 World Best Bar) è l’aspetto d’impresa del gruppo a entusiasmare: nel 2013 infatti viene lanciato sul mercato “Vermouth del Professore”, primo di una lunga serie di prodotti ideati in collaborazione con le “Distillerie Quaglia”. Oggi sotto vari brand vengono prodotti e commercializzati vermouth, gin e anche cocktail ready-to-drink (progetto nato durante la quarantena) e addirittura selezionati e distribuiti whisky. Anche sul fronte delle nuove aperture di locali il gruppo ha saputo imporsi nella sua Roma, partecipando al progetto “La Punta Expendio de Agave” e lanciando in tempi più recenti “Latta – Fermenti e Miscele”, cocktail bar/laboratorio incentrato sui fermentati. L’ennesima consacrazione è giunta nel 2019, quando è uscito il libro” Twist on classic. I grandi cocktail del Jerry Thomas Project”, edito da Giunti, una raccolta di tutto il lavoro svolto dietro al bancone (la cui prefazione è stata scritta da un cliente affezionato, un certo Jude Law) e dal fatto che Coca-Cola abbia voluto dedicare al locale una bottiglietta limited edition. A oggi è l’unico bar al mondo ad aver ricevuto questo onore da parte del colosso di Atlanta.
Flavio Angiolillo
Nonostante il nome possa trarre in inganno, Flavio Angiolillo è cresciuto in Francia ed è tornato nel Paese dei suoi antenati solo in età adulta. Giunto a Milano senza parlare neanche un pò di italiano, ha cominciato come lavabicchieri: chissà se quel ragazzino mentre faceva i lavori più umili nei bar si sarebbe mai potuto immaginare che sarebbe divenuto in pochi anni proprietario di alcuni dei locali più importanti della città meneghina, d’Italia e del mondo. Oggi infatti Flavio detiene insieme al socio Marco Russo alcuni dei bar più famosi della zona dei Navigli, come ad esempio il MAG, Iter (incentrato sulla tematica del viaggio) e Backdoor che oggi detiene il primato del bar più piccolo del mondo. In piena pandemia ha deciso di investire ulteriormente, rilevando lo storico Pusterla, ribattezzato oggi MAG la Pusterla, e creando quindi i presupposti per un vero e proprio marchio applicabile su differenti location. Fiore all’occhiello del gruppo è 1930, il secret bar recentemente entrato a far parte dei 50 World Best Bar. Con una mentalità molto internazionale, Flavio e Marco hanno dato modo ai dipendenti di investire in quote delle aziende. Oltre ai bar oggi Flavio ha lanciato sul mercato diversi prodotti alcolici, come ad esempio la linea Farmily (che comprende due botanicals spirits, una vodka e un amaro, oltre ad alcune limited), Bitter Fusetti che in pochi mesi ha conquistato i barman grazie anche a una vera e propria campagna di guerrilla marketing, fisica e in digitale, e ultimamente il progetto Dripstillery, una vera e propria azienda che crea prodotti anche per conto terzi. La sua storia e soprattutto la sua filosofia sono raccontati nel libro “Il piccolo barman” edito da Giunti.
Dom Carella
Non tutti i barman diventano imprenditori vendendo qualcosa di fisico, di tangibile. C’è anche ci come Domenico “Dom” Carella si è affermato nel settore dei servizi, e in questo caso specifico, in quello delle consulenze. Originario della costiera della Basilicata, nasce come chef e poi si sposta dietro il bancone, mantenendo però viva la passione per entrambe e usandone le tecniche in maniera trasversale, interpretando il bar come una “cucina liquida”. Alle spalle molte esperienze importanti in Asia, tra cui quella da “8 1/2 Otto e mezzo Bombana” a Hong Kong e quella che che lo ha portato ad essere nominato bartender dell’anno in Asia per That’s Shanghai nel 2015. Tornato in Italia ha deciso di aprire il proprio locale, CA-RI-CO, che si è in brevissimo tempo affermato come una delle realtà più interessanti a Milano, e che è entrato in 50 Best discovery in meno di due anni). Parallelamente, Dom si è occupato di consulenze importanti sia in Italia (Langosteria e Aimo e Nadia su Milano) sia all’estero come Galvin brothers in Uk, oppure nel ristorante sloveno Hisa Franko, della celeberrima chef Ana Roš. Anche Carella ha firmato un brand, ma non di spirits, bensì di cocktail: si tratta di Cok – Cans or Kegs , nuovo progetto dedicato a bar, discoteche, ristoranti, temporary, hotel e spazi per eventi che non hanno un proprio servizio di drink. Si tratta di fusti da 3, 10 o 20 litri, oppure in formato lattina, di cocktail già miscelati e pronti per essere serviti.
Little Red Door
Nonostante questo articolo sia dedicato ai bartender-imprenditori italiani, abbiamo deciso di aggiungere un nome straniero non perché più meritevole di tante altre realtà imprenditoriali, ma perché è la prima volta che da un bar parte una startup digitale. Quando il famoso Little Red Door di Parigi ha lanciato la propria linea di vermouth pareva che la notizia fosse di per se abbastanza interessante. Ma a far parlare non sono solo referenze insolite come il primo vermouth a base di orange wine, oppure il vermouth Umami ottenuto grazie all’infusione di alga kobu e porcini, o quello bitter ottenuto con yerba mate. A finire sotto il riflettore è il fatto che la vendita dei prodotti non avviene tramite canali tradizionali, ma solo attraverso il web, su un sito creato ad hoc e nominato ernestspirits.com. Questo Amazon dei liquori è stato creato per un mercato B2B, e avrebbe lo scopo finale di proporre un’alternativa distributiva a quella tradizionale, mantenendo inalterati accordi di vendita e promozioni. Un progetto ambizioso, ma che ci fa capire che il futuro del bar sarà anche digitale. Ma solo per i servizi, perché il piacere di bere al bancone non lo si potrà mai smaterializzare.
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