Articolo tratto dal numero di novembre 2021 di Forbes Italia. Abbonati!
Basta andare a trovarlo nel suo ufficio per capire che Cristiano Seganfreddo non è un tipo ordinario: un giardino segreto e inaspettato a pochi passi da piazza San Babila, a Milano. “Un posto strano, bizzarro, pieno di errori e un po’ speciale. In fondo mi rispecchia, perché io evito sempre la moderazione e la mediocrità”, dice il fondatore e direttore del Progetto Marzotto, che ha generato il più ricco premio italiano per le startup (è arrivato quasi a 3 milioni di euro), adesso diventato ‘2031’, dopo dieci anni in cui è stato sostenuto dalla nota famiglia imprenditoriale veneta. Tra novembre e dicembre sono in programma le prime premiazioni del nuovo corso.
Ma andiamo con ordine, assieme a Seganfreddo, 48 anni, vicentino cittadino del mondo, a cui piace definirsi ‘un creativo-imprenditore’. E infatti è anche editore di FlashArt, la storica rivista internazionale d’arte e cultura contemporanea che guida con la moglie Gea Politi, animatore di Agenzia del Contemporaneo, strategic advisor dell’Ethical fashion iniziative, agenzia dell’Onu per la moda sostenibile, e tanto altro visto che a Seganfreddo piace stare “attaccato alla contemporaneità, alla vita globale, altrimenti non riesci a comprendere il mondo che cambia”. Se devo dire quale sia la mia cifra è mettere insieme mondi diversi generando diversi livelli di relazione. Prima del Progetto Marzotto avevo lavorato a diverse iniziative nel territorio dove si intersecano arte, design e innovazione. Non sono mai stato un tecnico in un solo ambito, semmai un regista a cui piace mettere insieme pezzi diversi che di solito non lavorano insieme”.
È un po’ quello che è successo negli ultimi dieci anni con il Progetto Marzotto?
Con Giannino Marzotto, che aveva la voglia e l’urgenza e di lasciare un progetto ispirato alla visione del padre Gaetano, imprenditore illuminato alla stregua di Adriano Olivetti, siamo partiti dall’idea di un premio per le startup, ma io ho fatto un braccio di ferro metaforico per andare oltre, per fare qualcosa che non si poteva e non si può fare da soli: una piattaforma per la nuova imprenditoria. Il mio obiettivo non è mai fare cose originali, ma trovare nuovi modelli di costruzione di senso e di valore, che non devono corrispondere sempre e necessariamente alla produzione di denaro. Ricordo che Giannino diceva: “Cristiano alla fine è un intellettuale” e non voleva farmi un complimento. Ma io sono un intellettuale concreto.
Il Premio Marzotto è cresciuto, coinvolge decine di aziende, incubatori, abilitatori dell’innovazione. Ma da quest’anno diventa 2031. Perché?
Perché, come previsto, è finito l’impegno economico della famiglia Marzotto, che resta sempre vicina al Premio. E quindi abbiamo dovuto immaginare il prossimo decennio, da qui il nome. Partiamo con oltre 100 partner, un montepremi che supera il milione di euro, 44 premi di cui 17 offerti da aziende e tre main partner: Repower, UniCredit Start Lab e M31.
La cosa più bella in dieci anni?
Veder cambiare concretamente la vita a centinaia di persone, grazie al sostegno dato ai loro progetti. Il motore più importante è la generosità: dare senza aspettarti nulla in cambio. Così generi cose più grandi di quello che ti eri aspettato. E questo ti dà tanta adrenalina, anche se magari quelle persone non le rivedrai mai più.
L’aspetto critico, più debole invece?
L’atteggiamento troppo poco attivo che ha sempre avuto l’imprenditoria italiana, troppo cauta e incapace di aderire in modo pieno a un progetto. In una sola parola: poco generosa. Quanto tempo impiegano per concedere alla fine peanuts! Il grande dispiacere è vedere grandi imprenditori che hanno spinto poco sull’innovazione e le startup. Che non scommettono in modo sensato, mica devono giocare d’azzardo, su un futuro diverso. Ma il dispiacere è stato anche non essere stato in grado di convincerli. Ci ho provato con tanti, avrei dovuto farlo di più.
Ma adesso ci sono i prossimi dieci anni. Qual è l’obiettivo per il 2031?
La mia ambizione, ora che siamo più maturi e credibili, è coinvolgere in modo più fattivo e non solo grafico aziende e persone per un vero cambio di attitudine. Infatti, il nostro slogan è ‘Fai qualcosa di grande, per te, per l’Italia, per un futuro comune’. Un amico ha creato la prima piattaforma per creativi indipendenti nell’ambito della moda. Il progetto sta crescendo bene, probabilmente farà presto una exit, ma è riuscito perché lui è andato via dall’Italia, dove aveva provato a lanciare l’impresa ma non c’era stata possibilità. Ci proponevano l’investimento di una Panda, senza la capacità vedere la crescita e il futuro. Ed è questo il problema dell’Italia: non crederci abbastanza. Quando è stata venduta a Gucci, e quindi ai francesi di Kering, Bottega Veneta fatturava 30 milioni, adesso 1,5 miliardi.
Com’è arrivato alla moda, al design, all’arte e all’innovazione?
Ho fatto il classico, ho studiato filosofia ma ho cominciato a occuparmi di arte attorno ai 20 anni, frequentando artisti, designer, la nouvelle vague della fine degli anni Novanta. Mi sono ritrovato a vivere tante contaminazioni quotidiane, a cominciare dalla bottega di frutta e verdura della mia famiglia, in provincia di Vicenza.
Che cosa c’entra la bottega dei genitori?
Beh, negli anni Settanta l’avevano chiamata “Boutique frutta e verdura da Remo”: se questa non è contaminazione! Lì in qualche modo è cominciata la mia esperienza creativa: dovevi gestire una materia che cambiava ogni giorno, una grande varietà di prodotti diversi in ogni stagione. Io sono nato in quel negozio e a malincuore sono andato via da Vicenza. Infatti, mi sono trasferito tardi a Milano, attorno ai 30 anni. Ma nelle province c’è poco scambio di informazioni, persone, merci e quindi alla fine accade poco o nulla. D’altro canto, in Veneto ho avuto la possibilità di fare tante cose che non avrei potuto fare a Milano. Ho potuto sperimentare, sbagliare, prendere le misure di quel che volevo fare.
Dove sarà l’Italia nel 2031?
Dove deciderà di essere. Non c’è solo lo spread economico, ma anche quello culturale e anagrafico. Non basta abbassare solo il primo per entrare nei meccanismi reali di un mondo complesso e globale. E se non lo faremo diventeremo sempre di più un Paese produttore b2b e non b2c. Saremo bravi a fare macchine, ma perderemo l’appuntamento con il mercato e questo in un mondo sempre più disintermediato, sarà fatale. Con ‘2031’ vogliamo dare il nostro contributo per evitare che ciò accada.
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