Hack the Matrix. Ma qual è la matrice? Prima di tutto le nostre convinzioni e convenzioni, quello su cui abbiamo basato la nostra “crescita” fino ad ora. Una crescita che si è allargata sulla biologia esterna invece che dominare la biologia interna. Due estremi in cui la tecnologia viene vista in maniera dualistica, come nuova divinità o come deriva infernale. Per i più laici hackerare il sistema diventa invece trovare la maniera creativa e irrispettosa (verso prese di posizione innalzate sull’altarino delle verità) di rompere i protocolli e le regole che hanno formato convinzioni e abitudini della maggior parte delle persone.
Questo, in sintesi, è la filosofia del biohacking, che vede la possibilità di migliorare la prestazione biologica partendo dalla conoscenza del proprio funzionamento passando per il monitoraggio e il cambiamento, anche estremo, di abitudini. Si tratta, in sintesi, di una disruption che in buona parte riporta a concetti antichi trasmessi nel tempo da pratiche e discipline religiose o mistiche e che ora gli strumenti tecnologici hanno validato con misurazioni, rendendo conoscenze intuitive, astratte o basate su una comunicazione analogica (che comprendeva anche suggestioni e credenze) delle concrete evidenze scientifiche.
I pilastri del biohacking
Un cambio di prospettiva che ha spostato i business. I pilastri del biohacking (e conseguentemente delle frontiere di tracciamento e condizionamento tecnologico) sono pensieri, movimento, luce, temperatura. “Oggi le evidenze scientifiche ci permettono di ribaltare alcune credenze e rendono democratici e accessibili strumenti per monitorare e correggere abitudini sbagliate”, spiega Stefano Santori, trainer e sperimentatore del biohacking. “Questo ci consente di esplorare il nostro sistema biologico con curiosità e indipendenza e compensare quel distacco dai ritmi naturali cui ci costringe il nostro stile di vita”. Santori è particolarmente attivo nella sperimentazione della tecnologia da biohacker, dall’occhiale per l’isolamento sensoriale Silent Mode, per agevolare il sonno e il funzionamento della ghiandola pineale, all’anello Oura Ring per monitorare il proprio ritmo circadiano, fino ad arrivare a sensori insight inseriti nel tricipite per controllare flusso ematico e livelli di glucosio. “I livelli di biohacking sono diversi e occorre stare attenti a non utilizzare gli strumenti tecnologici oggi a disposizione come semplici toys o feticci. Avere strumenti di misurazione e quantificare i nostri valori quotidianamente ci consente di osservare il flusso dinamico della nostra macchina biologica”.
In questa disciplina, che ha diverse documentazioni scientifiche a supporto delle sue pratiche, ma ha soprattutto la fiducia di chi ha investito in innovazione tecnologica dedicata (e questa è sempre una cartina di tornasole di dove sta andando la ricerca), il ruolo degli ormoni e degli aspetti endocrini della nostra esistenza sono fondamentali. Ha però grande peso il tracciamento e il reset delle abitudini, altro mercato per cui sono nate innumerevoli app. Antonio De Matteis, che nasce come trainer per attività sportive, oggi sta integrando il suo percorso con studi sulla Pnei (psiconeuroendocrino immunologia). “Il guardare al corpo come a un intero è un suggerimento che ci viene già da Aristotele e da Galeno. Il fondamento del biohacking è il rispetto dei ritmi e la riconnessione con quelli della natura. Fino ad oggi c’è stato un pregiudizio che vedeva la tradizione greca come riduzionista e quella orientale come olistica: oggi le tradizioni si integrano e si riscoprono (proprio grazie a strumenti tecnologici che ci permettono di osservare ciò che prima era invisibile al nostro occhio) come appartenenti a linee scientifiche sempre più definite”.
Tra nuove tecnologie e filosofie da recuperare
Alla base dello sviluppo delle potenzialità del nostro corpo ci sono principi filosofici da recuperare: ricordiamo che, senza andare nelle filosofie orientali, basterebbe recuperare i principi di epimeleia eautoù per confrontarli con le nuove conoscenze che portano l’anima nel campo delle neuroscienze. Molte pratiche di preghiera sono state ad esempio riscoperte come strumenti che davano vantaggi proprio a quel Hrv (la variabilità della frequenza cardiaca) oggi misurato e rivalutato grazie a letture che utilizzano tecnologie. “Uno dei principi del biohacking è la semplicità, che non deve essere semplificazione. Per motivare a una successiva autodisciplina occorre introdurre i principi e le pratiche con un approccio giocoso”. Così, se in altre epoche l’affrontare il freddo per temprare il corpo veniva imposto con un approccio alla disciplina di derivazione spirituale, se non militare, oggi è possibile partecipare a sessioni del metodo Wim Hoff (che ha diverse evidenze scientifiche) in ambienti decisamente più leggeri: delle sessioni vengono ad esempio fatte da scuole di Yoga come Shamadi di Firenze, che ha organizzato anche corsi di sopravvivenza nella natura. Se è vero che l’innovazione ha portato a più confortevoli criocamere, la domanda che molti si fanno però è proprio questa: quanto conta l’impegno e la fatica nei risultati e quanto è giusto che la tecnologia sostituisca questa fatica?
I rimandi, nei percorsi di training, a pratiche di nicchia o accantonate (un ciclo che la scienza compie periodicamente) sono numerosi. Lo studio dei micromovimenti d’altra parte rimanda al Feldenkrais, così come le tecnologie di Led terapia (ormai utilizzate in diversi centri medici) riprendono antiche convinzioni mediche che utilizzavano vetri colorati. I confini tra scienza e “non ancora” scienza vengono esplorati su diversi fronti: la Fondazione Prada sta portando avanti dal 2018 il progetto di ricerca Human Brain, che mette insieme neurobiologi, filosofi, neurochimici, linguisti e esperti di intelligenza artificiale, cercando un dialogo tra passato e futuro soprattutto sulla centralità del corpo. Le scoperte sulle nostre potenzialità sono talmente in accelerazione che le persone si riuniscono intorno a chi mette a sistema le informazione sul tema. Mick Odelli, dopo una stretta collaborazione con una neuroscienziata durante la sua esperienza in Drawlight (società che crea ambienti immersivi e realtà virtuali attraverso strumenti di light design), ha deciso di focalizzare la sua ricerca in questo campo e di far conoscere i diversi scenari che condizionano la nostra percezione e dunque il nostro benessere.
Rischi e derive legati al crackeraggio della biologia
Secondo Odelli si sta ad esempio rivalutando la funzione del cosiddetto gut feeling, che altro non è che la sensazione di pancia, la fiducia nel corpo. “Avendo ultimamente avuto un’esperienza di studi sul bioma ho dovuto rivedere alcune convinzioni”, spiega l’influencer, che ha raccolto intorno alla sua divulgazione su diverse piattaforme circa centocinquantamila follower. “Fare sgambetti mentali alla propria mente implica per forza di cose anche un “hacking” a livello fisiologico, perché mente e corpo hanno relazioni reciproche”.
L’attenzione è però ultimamente puntata sulle possibili derive legate al crackeraggio della biologia. In particolare i dubbi bioetici si focalizzano sui possibili errati utilizzi di tecnologie come Neuralink o su esperimenti di editing del dna con Crispr condotto dallo startupper Josiah Zayner. La discussione sui rischi di un approccio sbagliato nella relazione fra tecnologia e corpo nell’evoluzione umana aveva già preso il via da Mark O’Connel in Essere una macchina, il suo diario di viaggio tra i fans del transumanesimo, e continua oggi con testi come La scomparsa della realtà di Jean Baudrillard, che pone l’attenzione sul rischio che le protesi tecnologiche, più che aiutare l’uomo a potenziarsi, contribuisca invece a farlo scomparire. Il tema è forse quello di chiedersi quando stiamo hackerando e quando stiamo crackerando il nostro sistema e soprattutto a chi dobbiamo affidare questa responsabilità e con quale protocollo.
Quali sono allora i confini tra hacking e cracking? Mick Odelli ha un suo punto di vista, nato anche da un confronto dal basso con centinaia di follower che ha coinvolto su instagram nei dibattiti legati ai temi di volta in volta trattati. “Se Hacking significa esplorare, testare, superare una barriera al solo scopo conoscitivo e di maggiore consapevolezza di un sistema, il cracking fa lo stesso, ma con l’obiettivo di manomettere il sistema stesso. Cambiarlo, per un fine più immediato”.
Per questo motivo possiamo parlare di biohacking e biocracking. Biocracking è forse un termine inesistente, ma trovo ovvio il parallelismo. Manomettere il proprio dna con sistemi Crispr fatti in casa è cracking. L’uso di determinate droghe, è cracking. L’utilizzo dei zootropici può essere visto come un cracking. Indipendentemente dalla fine linea con cui si possono distinguere i termini, penso che la differenza sostanziale stia negli obiettivi. Consapevolezza e cambiamento naturale, o ricerca di cambiamento immediato e manipolazione senza controllo? Quel che è certo che stiamo andando verso la costruzione di nuovi protocolli (necessari all’essere umano) che dovranno lasciare spazio, per consentire ulteriore evoluzione, a una parte di mistero che ci tenga nel giusto ritmo tra conoscenza illuministica (ordine razionale) e suggestione inconscia (spinta irrazionale): ad oggi è la coscienza il grande mistero irrisolto e irriproducibile e forse ci conviene rimanga tale.
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