Alessandro Ferrari
Business

Il futuro dell’intelligenza artificiale secondo il fondatore di questa azienda tech lombarda

Da un fallimento nasce un successo. Così può essere riassunta la storia di Alessandro Ferrari, imprenditore milanese, che dopo aver messo da parte l’idea di creare un’app per la fidanzata, ha deciso di fondare Argo Vision, azienda di intelligenza artificiale italiana che oggi conta un team Ricerca e sviluppo di dieci persone – dislocate, in smart working, in tutta Italia – e un previsionale di crescita del 40% nel 2023. Crescita supportata anche dall’acquisizione da parte di Sea Vision, uno dei principali attori italiani nel mondo della visione e del controllo dei processi industriali.

Oggi Ferrari è uno dei maggiori esperti italiani di intelligenza artificiale, materia che insegna all’Università di Pavia, portando in dote agli studenti la sua stessa storia. Quella di un’azienda nata in un sottotetto della Brianza che, grazie a una costante attività di ricerca e sviluppo, è oggi in grado di competere a livello internazionale con realtà ben più grandi e note del panorama tecnologico.

Come è nata ARGO Vision?
Nel 2014 avevo una compagna che passava ore a sistemarsi le unghie, creava composizioni di nail art ma ci impiegava tantissimo tempo. Un giorno, esasperato per l’attesa, le promisi che avrei creato un’app di realtà aumentata per la nail art: io e il mio socio Gabriele Lombardi (attuale cto di Argo Vision, ndr) avevamo capito che le nuove tecnologie basate su Deep Learning stavano per stravolgere il mercato e decidemmo di cavalcare l’onda. Certo, parlare di queste cose dieci anni fa non era facile e la partenza fu un po’ complicata.

Cos’è successo dopo?
Abbiamo lavorato all’idea per un anno e mezzo, perlopiù di notte e nei weekend. Quando ci siamo accorti che un’azienda britannica aveva lanciato lo stesso progetto prima di noi, sono volato a Londra e ho incontrato il fondatore, che ha deciso di finanziarci. Era un segnale che esisteva un mercato pronto a esplodere anche ben più grande di quello delle app di AR. Alla fine però abbiamo valutato che sarebbe stato meglio fondare una startup in Italia piuttosto che essere un piccolo ingranaggio di una grande realtà estera; volevamo stupire dall’Italia non essere l’ennesimo “cervello in fuga”. Così siamo rimasti a casa e dal seme di quell’idea è nata Argo Vision.

Quali sono i progetti più interessanti a cui lavorate oggi?
Uno si chiama Cyclopeye, è un sensore neurale per lo smart parking che ha l’obiettivo di guidare in modo istantaneo il conducente verso il posto auto libero più vicino. Così il guidatore si stressa meno e si riduce anche l’inquinamento all’interno dei parcheggi indoor. Cyclopeye è il sensore più avanzato nel suo genere sul mercato; oggi è installato nel centro commerciale di Arese, dove c’è uno dei parcheggi più grandi d’Europa.

Poi?
Da diversi anni portiamo avanti un progetto di ricerca e sviluppo che ha come obiettivo la realizzazione di una suite per la comprensione semantica delle immagini. Detto in parole povere, la suite analizza immagini e video sia in condizioni controllate, come quelle industriali, che in condizioni non controllate (le app su smartphone, ndr) e ne estrae informazioni rilevanti per i nostri clienti. Dal controllo qualità fino al tracking di oggetti di interesse, tutto ciò che è legato alle immagini digitali ci interessa. Sul fronte, per così dire, più pioneristico, stiamo lavorando su AI generativa, tiny neural network e continual learning per l’apprendimento on the edge.

Quando si avvicina alle capacità umane, l’AI inizia a fare paura. Prendiamo ChatGPT, il chatbot che in questi giorni sta facendo parlare di se. Open AI che l’ha finanziato e vede tra i suoi investitori Elon Musk, si autodefinisce organizzazione per promuovere e sviluppare un’intelligenza artificiale amichevole per l’uomo. Le reazioni degli utilizzatori però sono altre.
Il progresso porta spesso conflitto. ChatGPT poi ha spostato il livello della discussione sull’AI decisamente più in alto. Fino a oggi abbiamo sempre avuto a che fare con chatbot poco intelligenti e versatili, come quelli che molte grandi imprese usano per il supporto alla clientela. Questo invece è uno strumento che ha raggiunto e per certi versi superato le capacità umane. Molti mercati ne saranno a brevissimo rivoluzionati. Ad esempio, ChatGPT, così come co-Pilot, potrebbe diventare a breve un aiuto-sviluppatore interno all’azienda.

Se però anche Google ha rizzato le antenne – i due fondatori Page e Brin sono stati consultati in questi giorni da Sundar Pichai, l’ad del colosso di Mountain View – vuol dire che qualcosa di grosso sta accadendo.
ChatGPT potrebbe modificare la percezione che abbiamo dei motori di ricerca. Oggi noi chiediamo e la query di ricerca risponde, ma non c’è alcuna interazione reale tra le due parti. Se invece qualcuno inizia a mettere sul tavolo l’idea che con il motore di ricerca è possibile dialogarci, le carte in gioco cambiano.

Ma se anche Google sente che il suo algoritmo è minacciato, cosa ne sarà di intere professioni meno tecnologicamente avanzate o più legate al fattore umano?

Si creerà conflitto, è inevitabile. Mi vengono in mente le recenti proteste di alcuni artisti americani contro le AI generative artistiche come Lensa e Stable Diffusion (le app che di recente ci hanno inondato con immagini generate tramite AI, ndr): in 20 minuti possono creare un’opera d’arte che potrebbe anche vincere un premio internazionale. Non escludo poi che con i prossimi aggiornamenti di ChatGpt, l’AI potrebbe arrivare a generare libri che diventano bestseller, con ricadute negative sugli investimenti da parte degli editori nei confronti di questo o di quell’autore fisico. È un’esasperazione, ma dobbiamo porci il problema. Noi siamo abituati a intendere il digitale come uno strumento a nostro servizio, non come un generatore autonomo di contenuti indistinguibili come quelli prodotti dagli artisti. C’è un grosso tema etico dietro, che non va di pari passo con il profitto.

Se si chiede a ChatGPT se l’AI rischia di far perdere milioni di posti di lavoro, la chat ti risponde che alcuni lavori diventeranno comunque obsoleti e che l’obiettivo dell’AI è quello di supportare le attività umane, non di sostituirle.
Non sono in grado di dire se l’occupazione aumenterà o diminuirà. Però l’evoluzione dei mestieri esiste da sempre, che si tratti di passare dalla zappa a un trattore, da una macchina da scrivere a un pc. Io credo che l’AI farà scomparire una serie di lavori a basso valore aggiunto con positive ricadute sia sulla crescita che sull’efficientamento dei processi, ma porterà anche nuovi e forti squilibri sociali.

Sarà qualcosa a portata di tutti?
Probabilmente no. Si creeranno dei gap tra chi ha accesso a queste tecnologie, come le superpotenze mondiali, e chi non ce l’ha. E anche coloro che ne hanno accesso sperimenteranno, ma questo sta succedendo tuttora, una velocità dei cambiamenti a cui come specie non siamo abituati. Siamo di fronte a qualcosa che nel bene e nel male non è arginabile e che si muove in modo molto più rapido di un qualunque legislatore.

Che mondo è quello italiano dell’AI? Ci sono più nerd nelle loro camerette che vogliono cambiare il mondo o cervelloni in giacca e cravatta che cercano i loro business angels?
Il mondo dell’AI va di pari passo con quello delle startup, che in Italia è in crescita. Ci sono molte big che stanno investendo sul tema, anche se la dimensione degli investimenti e del mercato non è ancora paragonabile ad altri paesi. Non a caso il nostro fatturato è oggi generato quasi completamente da attività svolte all’estero.

Ci sono delle applicazioni specifiche che state studiando per il mercato italiano?
La nostra vocazione è oramai internazionale, il mercato italiano è importante soprattutto per testare le novità che proponiamo. Proprio in questo momento stiamo lavorando su un nuovo software in grado di effettuare il controllo qualitativo sui rossetti, un prodotto di apparente facile realizzazione ma di difficilissimo controllo qualità. Con le tecnologie pre-neurali, non si riesce a individuare con sufficiente precisione tutta una serie di possibili difetti/imprecisioni che possono presentarsi; grazie all’AI vogliamo fare sì che il prodotto finale sia il più accurato possibile. In qualche modo si chiude un cerchio: dalle unghie “aumentate” ai rossetti “perfetti”, un viaggio lungo quasi dieci anni.

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