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Perché una tassa mondiale sui grandi patrimoni potrebbe essere utile a tutti

di Andrea Manzitti, docente di diritto tributario dell’Università Bocconi

Sta facendo discutere la proposta di una eurodeputata e di un economista – Aurore Lalucq e Gabriel Zucman, entrambi francesi – per l’istituzione di una imposta mondiale sulle grandi ricchezze individuali.

Tra le varie forme di prelievo fiscale, quella sul patrimonio fa più paura di qualsiasi altra, forse perché è percepita come una minaccia all’integrità di risparmi faticosamente accumulati su redditi già tassati. Ma questa è una caratteristica di tutte le imposte indirette, non solo di quelle patrimoniali.  Montesquieu suggeriva ai governi di adottare le imposte sui trasferimenti perché, se saggiamente calibrate, “il popolo non si accorgerà neppure di quel che sta pagando”. In tempi moderni, l’inclusione dell’Iva nel corrispettivo dei consumi privati maschera perfettamente l’onere tributario agli occhi del reale contribuente. Pochi sanno di evadere le tasse accettando di pagare 80 euro “in nero” invece di 100 “con fattura”. Nell’immaginario collettivo l’evasore è solo che accetta il pagamento in nero e non anche chi lo effettua.

Tornando alla proposta, questa è stata condivisa da Patriotic Millionnaires, associazione che riunisce alcuni fortunati titolari di importanti patrimoni, nata negli Usa per contrastare la politica di tagli fiscali per i più abbienti voluta dall’allora presidente Bush. È una cosa che dovrebbe fra riflettere. Più che una proposta dettagliata, è un appello alla governance mondiale (Onu, Ocse e Ue) affinché sia favorita l’introduzione – da parte degli Stati aderenti – di una imposta progressiva sui grandi patrimoni.

La situazione delle multinazionali

Qualcosa di simile è stato appena fatto per gli utili delle multinazionali. Ben 137 Stati hanno convenuto su una imposta minima del 15%. Molti lo consideravano un obiettivo impossibile, ma il consenso mondiale su questo principio è cosa fatta. Certo, ora serve una dose anche maggiore di volontà politica per attuarlo concretamente, ma la strada è stata aperta. È quindi possibile iniziare un analogo cammino verso la tassazione minima mondiale sui grandi patrimoni. Questo l’auspicio dei proponenti.

La globalità della nuova imposta è una delle sue caratteristiche più importanti. L’offerta statale di sconti fiscali per attrarre produzione e ricchezza è ancora oggi assai robusta. L’imposta minima del 15% sugli utili delle multinazionali è un modo, per alcuni fin troppo timido, per contrastare la concorrenza fiscale dannosa tra Stati. Oltre alle imprese, anche i patrimoni individuali e i loro possessori si muovono in cerca di ordinamenti stabili e a bassa tassazione. Non a caso anche l’Italia si è mossa concedendo generosi sconti fiscali per i cosiddetti “Paperoni2 e per il “rientro dei cervelli”.

Il problema è che sono tutti giochi a saldo negativo. Per attirare base imponibile dall’estero bisogna offrire tasse più basse. Chi fa l’offerta vincente guadagna magari 1, ma solo se qualcun altro nel mondo perde almeno 2. Adam Smith definiva “beggar the neighbor” la politica di chi cerca di porre rimedio ai propri problemi economici impoverendo altri Paesi. Nella teoria dei giochi è il dilemma del prigioniero: ogni giocatore ha interesse a seguirla ma finisce per danneggiare anche sé stesso. Non si tratta, a tutta evidenza, di una politica sostenibile. Per questo la proposta di tassare i grandi patrimoni ha senso solo se adottata da tutti, o quasi tutti.

A cosa servirebbe questa nuova imposta?

In primo luogo, consentirebbe maggiore equità nella distribuzione del carico fiscale, talvolta sbilanciato a favore di chi ha di più. La pianificazione fiscale è dominio riservato ai grandi contribuenti. Le grandi società spesso godono di aliquote effettive d’imposta assai più basse di quelle che gravano sulle imprese medio-piccole. Meno della metà, secondo studi citati da Lalucq e Zucman. I proprietari di grandi fortune sfuggono un po’ ovunque alla progressività dell’imposta personale, finendo per pagare imposte effettive ad aliquote minori di quelle sopportate da chi ha solo redditi di lavoro o professionali. In Italia, ad esempio, si fa fatica a capire perché chi guadagna 100.000 euro lordi investendo in Btp paga 12.500 euro, mentre chi guadagna la stessa cifra lavorando paga tre volte tanto. L’aumento della diseguaglianza di reddito e patrimonio è figlia anche di queste storture.

In secondo luogo, le nuove grandi sfide mondiali (transizione energetica, cambiamenti climatici, lotta alla povertà e alle disuguaglianze) richiedono enormi risorse pubbliche. Se si utilizzano quelle esistenti, bisogna per forza “tagliare” qualcosa. Se non si vuole farlo, bisogna trovarne di nuove. Certo, si possono alzare le imposte sui redditi o sui consumi, ma questo finirebbe per gravare principalmente sulle fasce più deboli e più numerose della popolazione. In definitiva, aumentare la pressione fiscale su chi ha tanto di più rispetto agli altri non mi pare una idea così bislacca.

Chi pagherebbe la nuova imposta

Ovviamente spetta ai rappresentanti di ogni ordinamento democratico stabilire base imponibile, aliquote e esenzioni di ogni imposta. Lalucq e Zucman se ne tengono lontani ma ricordano che il tema è oggetto di numerosi studi teorici, alcuni dei quali convergono sua una imposta annuale dell’1.5% per i patrimoni superiori a 50 milioni. Si tratta di una platea ridottissima di possibili contribuenti, molto meno dell’1% del totale.

È anche ragionevole che la nuova imposta preveda una congrua soglia di esenzione (ad esempio, 5 milioni) così che chi non la raggiunge non debba pagare nulla. Sopra la soglia, l’imposta potrebbe avere un andamento moderatamente progressivo, ad esempio 0,5% da 5 a 25 milioni, 1% tra 25 e 50 milioni.

Bisogna anche fare i conti con chi, come l’Italia, già prevede imposte patrimoniali. Noi conviviamo con parecchie imposte di questo tipo (Imu, bollo auto, registro, ecc.) che sono state introdotte in epoche diverse e risultano assai inique. Ogni ragionamento su di esse è inquinato dal marketing politico domestico, che da più parti agita lo spettro della “patrimoniale” per impaurire gli elettori e screditare chi osa menzionarla.

La proposta di una imposta mondiale sulle grandi ricchezze può favorire un dibattito più sereno su meriti e demeriti delle imposte patrimoniali e sulla loro distribuzione, tanto più utile quanto più si riesca ad evitare slogan pregiudizialmente contrari o favorevoli. In fondo, tra i suoi convinti sostenitori ci sono parecchi multi-milionari ed è difficile capire perché chi non lo è – cioè tutti tranne pochissimi – dovrebbe opporsi.

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