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Design

La Mostra Internazionale di Architettura a Venezia spalanca le porte alla multidisciplinarietà

Qual è il ruolo dell’architettura oggi? E in che modo può diventare un laboratorio per creare un futuro diverso, azzardiamo, migliore? Sono le domande che percorrono The Laboratory of the Future, la 18. edizione della Biennale Architettura di Venezia, inaugurata il 20 maggio e visitabile fino al 26 novembre.

Curata da Lesley Lokko, architetta, docente e autrice di bestseller scozzese di origini ghanesi, in primo luogo mira ad accorciare le distanze tra architettura e pubblico mettendo sul tavolo, o provando a farlo, le questioni più urgenti e meno dibattute riguardo la decarbonizzazione e la decolonizzazione, le risposte al cambiamento climatico, le emergenze sociali, l’ipocrisia sottesa in alcune democrazie, le grandi ingiustizie dell’ultimo secolo.

Riflettori puntati sull’Africa

Ma soprattutto, la 18. Mostra Internazionale di Architettura restituisce una visione corale e poliedrica dell’architettura, lasciando la parola non alle archistar (finalmente) ma a piccoli studi di architettura, a collettivi, ad accademici, urbanisti, designer, tutti denominati practitioner proprio per la loro formazione eterogenea:

“Nell’architettura in particolare, a dominare è stata storicamente una voce singolare ed esclusiva, la cui portata e il cui potere hanno ignorato vaste fasce di umanità dal punto di vista finanziario, creativo, concettuale, come se si ascoltasse e si parlasse un’unica lingua. La storia dell’architettura non è quindi sbagliata, ma incompleta”, ha spiegato la curatrice.

Suddivisa in sei sezioni, distribuite tra il Padiglione centrale e i Giardini, l’Arsenale e altre venues in giro per la città, The Laboratory of the Future comprende 89 partecipanti, di cui oltre la metà proviene dall’Africa. Un continente inteso come gigantesco laboratorio del presente dove già da molto tempo si sperimentano soluzioni di resilienza a situazioni climatiche estreme, oltre a crisi energetiche ed economiche.

Il Padiglione centrale

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Land Narratives – Fantastic Futures

Il percorso di The Laboratory of the Future inizia con la sezione Force Majeure nel Padiglione centrale ai Giardini, dove sono stati riuniti 16 studi che rappresentano un distillato della produzione architettonica africana e diasporica.

Ci si immerge in un racconto frammentato e pulsante, in cui l’architettura si espande, come da volontà della curatrice di aggiungere e non di togliere, di allargare e non di restringere, per farsi agente di cambiamento, strumento vivo e inclusivo capace di immaginare soluzioni alle sfide di oggi.

Arte, architettura e design si mescolano così all’attivismo, all’ambientalismo, al giornalismo investigativo, alla ricerca e alla sperimentazione. In Counteract, Kéré Architecture rimette al centro la sapienza antica dell’Africa occidentale, soprattutto nel creare abitazioni intelligenti e resistenti alle condizioni atmosferiche avverse, per immaginare una nuova architettura moderna.

Il tema dell’eredità è anche al centro del lavoro di Atelier Masomi, che in Process riflette sulla capacità di molti luoghi dell’Africa di fare architettura in contesti di scarsità di risorse, di clima estremo e di vulnerabilità economica per sperimentare approcci architettonici innovativi che facciano tesoro del passato.

Il tema della diaspora africana viene affrontato da practitioner afroamericani come Urban American City, che in Land Narratives – Fantastic Futures fa luce sulle creatività più esplosive nate nei contesti di segregazione razziale della Black Belt del South Side di Chicago, e sempre di creatività parla anche lo Studio Sean Canty in Edgar Shed’s.

Quest’ultimo reinterpreta le juke joint del Carolina del Sud, ovvero quelle baracche piene di fumo, vita e ritmo dove si suonava il blues, per ricordare come queste semplici architetture siano state capaci, nonostante tutto, di ospitare bellezza e meraviglia.

Decolonializzazione, ambientalismo e attivismo si intrecciano seguendo un leitmotiv: l’immaginazione. Perché, come dice la curatrice Lesley Lokko, “è impossibile costruire un futuro migliore se prima non lo si immagina”.

I Padiglioni nazionali

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Padiglione Brasile

L’eterogeneità è protagonista anche dei Padiglioni nazionali ai Giardini della Biennale e nelle altre location della città. Vincitore del Leone d’Oro, il padiglione del Brasile, intitolato Terra [Earth] e curato da Gabriela de Matos e Paulo Tavares, ripercorre le cicatrici delle popolazioni indigene per affrontare argomenti dolorosi come la colonizzazione (rappresentata dalla capitale Brasilia, costruita in nome della modernità a spese dei nativi), e la depredazione della foresta amazzonica (dimostrando come le terre gestite dalle popolazioni indigene e dai Quilombolas siano quelle meglio preservate del Brasile).

Molto interessante anche il lavoro proposto dal padiglione francese, che attraverso l’installazione Ball Theater / La fête n’est pas finie, curata da Muoto (Gilles Delalex, Yves Moreau) & Georgi Stanishev, si interroga su dove siano finite, oggi, quelle utopie che hanno percorso il XX secolo.

A provare a risvegliare l’azione è anche il Canada, che con Not for Sale! racchiude 10 proposte contro l’emergenza abitativa che accomuna gran parte dei paesi occidentali, mentre a immaginare un futuro di distruzione ambientale è la Danimarca con Coastal Imaginaries, che affronta la prospettiva delle urgenze rappresentate da inondazioni e mareggiate per sviluppare una serie di strategie di sopravvivenza.

L’architettura promotrice di giustizia ed equità sociale

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Padiglione Kuwait

Fil rouge tra i padiglioni, e in generale nell’intera Biennale, è un concetto allargato di architettura, intesa come pratica accessibile a tutti e promotrice di giustizia ed equità sociale.

Una metodologia che viene abbracciata anche dai curatori del padiglione del Kuwait, intitolato Rethinking Rethinking Kuwait e situato al Magazzino del Sale N.5, che partendo da un’indagine focalizzata sugli effetti devastanti dell’urbanistica modernista di Kuwait City, alla base della distruzione del tessuto edilizio storico della città, esplora idee di decolonizzazione e decarbonizzazione sviluppando sistemi di mobilità pubblica e promuovendo il recupero di strutture di snodo già esistenti.

Progettato dai curatori Naser Ashour, Mohammad Kassem, Rabab Raes Kazem e Hamad Alkhaleefi come un laboratorio interattivo, dove pareti divisorie in tessuto dialogano con gli spazi del magazzino, il padiglione esplora metodi di progettazione architettonica e urbana che si fondano sul problem-solving, la collaborazione, su nuovi modi di intendere la mappatura, sulla memoria e l’identità.

L’Arsenale e il Padiglione Italia

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Padiglione Italia

L’Arsenale è poi il palcoscenico della mostra collettiva Dangerous Liaisons, che accoglie i lavori di 37 partecipanti accomunati da un modus operandi ibrido, che valica i confini disciplinari e geografici, oltre alla sezione dedicata ai Progetti Speciali della Curatrice e ad altri padiglioni nazionali, tra cui quello dell’Italia.

Curato dal collettivo Fosbury Architecture, composto da progettisti nati tra il 1987 e il 1989, il padiglione italiano, dal titolo Spaziale – Ognuno appartiene agli altri è il palcoscenico di una pluralità di visioni (e non quella usuale del curatore-architetto) che si esprime in nove progetti sparsi sul territorio e nati dal coinvolgimento delle comunità locali.

Il padiglione porta alla luce le istanze di una generazione, quella degli under 40, cresciuta in uno scenario di crisi permanente in cui il dialogo e la condivisione diventano elementi centrali nella costruzione di soluzioni realmente alternative alle problematiche legate al cambiamento climatico, allo spopolamento dei territori interni, alla scarsità di risorse e opportunità.

I 1800 mq delle Tese delle Vergini diventano così teatro di progetti utili per varie comunità, da quella di Taranto, in cui la convivenza con il disastro viene raccontata dal collettivo Post Disaster in dialogo con Silvia Calderoni e Ilenia Caleo, a quella del quartiere catanese di Librino, dove lo Studio Ossidiana ha collaborato con Adelita Husni Bey per un progetto di rigenerazione delle periferie, passando per Belmonte Calabro, dove il collettivo Orizzontale insieme a Bruno Zamborlin e il progetto La Rivoluzione delle Seppie si interrogano sul superamento del divario digitale.

Il risultato non è (e non doveva essere) un progetto finito, ma l’avvio di una serie di iniziative che proseguiranno indipendentemente dalla Biennale. Ed è proprio questo punto a rappresentare l’elemento di unicità, estremamente apprezzabile, del padiglione: volontà dei curatori è quella di creare un’accademia diffusa sul territorio nazionale, finanziando vari progetti locali con i fondi stanziati e raccolti.

Un progetto corale che sembra in alcuni casi proseguire e portare a terra il discorso sulle aree interne imbastito da Mario Cucinella al Padiglione Italia della Biennale Architettura del 2018.

Il progetto di giornalismo investigativo di Killing Architects e la querelle con la Cina

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Investigating Xinjiang’s Network of Deten

In mostra all’Arsenale, il progetto di giornalismo investigativo Investigating Xinjiang’s Network of Deten del collettivo olandese Killing Architects non ha certo incontrato il gradimento della Cina.

Attraverso immagini satellitari, modellazioni 3D e analisi dei regolamenti delle carceri cinesi, il collettivo ha infatti restituito un ritratto dei centri di detenzione costruiti dal governo cinese nello Xinjiang per la reclusione di massa dei detenuti musulmani della minoranza degli uiguri.

Definito dalla Cina come frutto di falsificazione, il progetto olandese sarebbe il motivo della mancata partecipazione dell’ambasciatore cinese a Roma alla cena di gala a Ca’ Sagredo.

 

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