Mosca
Strategia

Perché le sanzioni alla Russia hanno fatto bene solo alla Cina

Il 29 gennaio l’Unione europea ha prorogato di sei mesi le sanzioni alla Russia. Queste misure, introdotte per la prima volta nel 2014 e contenute in 12 successivi pacchetti, divenuti molto più severi con il conflitto nel 2022, servirebbero a “indebolire la base economica della Russia, privandola di tecnologie e di mercati fondamentali e limitando in modo significativo la sua capacità bellica”, si legge in neretto sul sito ufficiale comune ai Consigli d’Europa ed europeo. Seppure di dubbia legalità dal punto di vista del diritto internazionale, le sanzioni sarebbero la risposta all’annessione illegale della Crimea, alla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina e all’annessione illegale delle regioni ucraine di Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson.

Una Mosca in salute

Diversi imprenditori italiani, sia che esportassero prodotti finiti in Russia, sia che importassero energie e materie prime a prezzi competitivi, hanno sofferto per queste misure. Risultano diverse crisi aziendali causate direttamente o indirettamente dalle sanzioni, nell’ambito di una trentennale stagnazione della nostra economia, che richiederebbe espansione e non contrazione. Se a questo aggiungiamo i 6 miliardi che costituiscono la quota italiana del nuovo finanziamento europeo di 50 miliardi di aiuti all’Ucraina, deliberato sempre nel primo mese del 2024, possiamo chiederci: Ue, ma quanto ci costi?

In una situazione di conflitto, il ‘beneficio’ con cui comparare questi costi dovrebbe essere il danno prodotto all’economia del ‘nemico’, sicché vale la pena di domandarsi se le sanzioni funzionino. A tal proposito, disponiamo di evidenza aneddotica e statistica. La prima ci deriva dal racconto di due professori, una giornalista e un sacerdote italiani che a fine gennaio sono andati a Mosca in missione di pace, violando le sanzioni e rischiando una pena carceraria e una salata multa, per verificare di persona l’applicazione di questi provvedimenti. Esportata una collana e alcuni libri, consegnati al vice primo ministro della Repubblica di Crimea, i nostri pacifisti disubbidienti sono tranquillamente rientrati in Italia con le valigie piene di caviale, vodka e altri prodotti oggetto dello scambio in loco, senza che nulla succedesse loro, neppure a seguito di autodenuncia. Hanno raccontato di una Mosca in grande spolvero, con magazzini stracolmi di prodotti stranieri e con scarsa presenza di forze dell’ordine, neppure nei luoghi solitamente più pattugliati.

L’aggiramento delle sanzioni

Quanto ai dati macroeconomici della Russia del post-sanzioni, c’è un rapporto di Robin Brooks, oggi direttore dell’Institute of International Finance, economista di Yale e della London School of Economics, già chief fx strategist di Goldman Sachs. Insomma, un pezzo da novanta dell’establishment finanziario anglo-americano. A sorpresa il suo rapporto non ha il tono freddo e scientifico che ci si potrebbe aspettare, ma ha le sembianze di un j’accuse. L’economista ce l’ha non con Putin, ma con l’Europa che reitera le sanzioni. Come le gride manzoniane, sono state del tutto inefficaci e la Russia naviga oggi in ottime acque. La ragione della loro inefficacia? Che parecchi paesi europei, in primis la Germania, le hanno allegramente ignorate, esportando verso paesi dell’Asia centrale (soprattutto Kirghizistan, Kazakistan, Georgia, Uzbekistan e Armenia), che poi trasferiscono direttamente i prodotti a Mosca. I grafici sono impressionanti, soprattutto per quanto riguarda le esportazioni della Germania, della Polonia e della Lettonia.

La più attiva nel violare le sanzioni appare la Germania, che esporta, soltanto nel piccolo Kirghizistan, beni di ogni natura per un valore vicino al centinaio di milioni di dollari al mese, quando, prima dell’invasione, non raggiungeva i 5 milioni. Simile impennata hanno avuto le esportazioni aggregate dell’Ue verso l’Armenia e il Kazakistan, che ormai superano stabilmente il miliardo al mese. 

A giudicare dalla cartina al tornasole del Kirghizistan, un’economia che non può fisicamente assorbire quei flussi, dunque interamente destinati alla Russia, le esportazioni provenienti dagli Stati Uniti, prima inesistenti e comparse dopo l’inizio della guerra, sono molto meno significative. Gli Stati Uniti ora sono poco sopra i 10 milioni di dollari, l’Italia è in rapida crescita a oltre 20 milioni a novembre ’23. Che gli italiani si siano fatti finalmente furbi?

L’affare della Cina

Le sanzioni, dunque, non funzionano anche perché molti paesi membri dell’Ue non le fanno rispettare. Brooks si straccia le vesti, ma, considerato che l’Europa dopo il bombardamento del Northstream 2 è rimasta ostaggio dell’importazione di gas Usa, che ci viene venduto a circa cinque volte il prezzo che eravamo soliti pagare ai russi, l’emergere di forme di resistenza da parte di un’imprenditoria europea già flagellata è del tutto naturale. 

Piuttosto, è interessante notare come la Cina si sia precipitata a prendersi una fetta di mercato che, nonostante tutte queste triangolazioni, l’Europa ha dovuto abbandonare a causa della crescita dei costi transattivi dell’esportazione più farraginosa. Le esportazioni cinesi in Russia si sono impennate a seguito dell’invasione (da 5 miliardi nel dicembre 2020 a 8 nel dicembre 2021, fino a 11 nel dicembre 2023). La Cina inoltre, per non esagerare nell’export diretto, è anche prima esportatrice vero il Kirghizistan, il Kazakistan e l’Uzbekistan. Che senso ha, in questo quadro, insistere con le ordinanze sui bravi?

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