Articolo tratto dal numero di settembre 2024 di Forbes Small Giants. Abbonati!
In un paesino di mille abitanti, a 15 chilometri da Novara, c’è un luogo che sembra essere rimasto indietro nel tempo. Quando si entra a Tenuta La Mondina, a Casalbeltrame, si nota subito una Fiat 500 di quasi cinquant’anni fa: è parcheggiata sotto i portici della struttura risalente alla fine del ‘600. Tre grandi corti, antiche scuderie e un’elegante ala nobiliare fanno da cornice a 200 ettari di terreni di cui 120 coltivati a risaia. Qui si produce riso “come una volta”, con metodi di irrigazione tradizionali e tecniche di coltivazione innovative.
Ma le cose non sono sempre state così: parte di quella tenuta è stata abbandonata per circa un secolo, fino a che Luigi Guidobono Cavalchini non ha chiesto alla nuora, Cristina Brizzolari, all’epoca imprenditrice immobiliare, di andare in quella piccola località del Piemonte e rimettere in sesto la struttura. Così, dopo anni di lavori e di viaggi tra Roma e Casalbeltrame, Brizzolari ha iniziato a indossare i panni di una “mondina moderna” fondando Riso Buono.
La carriera nell’immobiliare
Prima di intraprendere la strada del riso, lei faceva tutt’altro. “Era il 2011, vivevo tra Roma e Londra: compravo case e le rivendevo per i miei clienti e per me”, ha raccontato l’imprenditrice (che preferisce definirsi agricoltrice). Poi, la notizia dal suocero: “Un pomeriggio suona alla porta mio suocero, Luigi Guidobono Cavalchini – fino a qualche anno prima ambasciatore italiano a Parigi e poi rappresentante permanente presso l’Unione Europea a Bruxelles – che mi dice: ‘Cristina, mi ha scritto di nuovo il sindaco di Casalbeltrame. La cascina di famiglia cade a pezzi’. Sulla strada principale del paese infatti i tetti stavano crollando e così anche le finestre’”. Inizialmente Cristina sembrava solo voler mettere in sicurezza la tenuta. “Tornata a Roma dopo la prima visita, parlai con mio suocero e gli comunicai che sarebbe stato meglio impacchettare tutto con dei nastri di sicurezza e lasciar cadere a pezzi quell’edificio ormai semidistrutto”, ha rivelato Brizzolari.
L’idea iniziale era la più naturale: contattare un geometra, incaricarlo di rifare i tetti e chiudere le persiane di legno della cascina. “Cosa c’entravo io con il riso, le risaie e i risotti?”, si chiedeva Cristina Brizzolari. Poi però è scattato l’amore e nella mente dell’imprenditrice ha cominciato a maturare l’idea di dedicarsi a quei terreni. “Ogni volta che tornavo lì con il geometra incaricato o con il sindaco del paese, mi innamoravo dei colori di quelle terre”, ha raccontato. Così è arrivata la decisione: “Dovevo dedicarmi alla rinascita della Cascina”.
Il colpo di fulmine per il riso
Lo spazio della tenuta che più ha incuriosito Cristina? Le risaie. “Mi sono innamorata delle sfumature delle risaie. È in quei momenti che ho pensato di ritornare a produrre il riso”, ha dichiarato. Dopo i tanti investimenti necessari per innovare e mettere a norma gli spazi e gli strumenti per coltivare il riso, c’erano da capire due cose: su quale tipo di riso puntare e, nel caso il prodotto fosse stato buono, come si sarebbe potuta chiamare l’azienda.
Grazie ai consigli di Massimo Biloni, agronomo ricercatore, Cristina decide di puntare sul Carnaroli: “Devi piantare il vero seme di Carnaroli. Qui in zona non lo fa nessuno”, le ha suggerito l’agronomo. La prima annata è stata piantata nel 2011, coltivata poi da un contoterzista di fiducia. E nel 2012 arrivò il primo raccolto: “Io il riso, da brava romana, l’ho sempre mangiato quando avevo il mal di pancia. Per questo avevo anche un palato pulito: non avevo il ricordo della mamma e della nonna che facevano il risotto alla domenica. Questa mia ‘mancanza’ mi ha permesso di capire che questo vero Carnaroli aveva un gusto peculiare, e mi piaceva pure”, ha rivelato. Subito dopo Cristina ha deciso di puntare su un riso nero. Non si tratta del Venere, ma dell’Artemide, riso oggi esclusiva di Riso Buono e dei produttori del seme. Artemide è anche il nome del cane di Cristina. L’imprenditrice l’ha adottata dopo il suo primo show cooking ai Feudi di San Gregorio, le terre famose per il Greco di Tufo e il Falanghina.
La nascita del brand
Nel 2012 la fondatrice di Riso Buono conobbe il direttore creativo Giorgio de Mitri. “Cosa vuoi farci con questo riso?”, le chiese. “Come le famiglie nobili, lo vorrei regalare a Natale agli amici”, le rispose Cristina. Ma de Mitri mandò ai suoi amici quattro sacchettini del suo riso per ricevere un parere. Gli amici erano Massimo Bottura, Carlo Cracco, Arturo Maggi della Latteria di Milano e Pietro Leeman, cuoco del ristorante vegetariano Joya di Milano. Ai primi tre diede il Carnaroli, mentre a Leeman diede l’Artemide. “I pareri furono tutti positivi”, ha raccontato Cristina. Fu in quel momento che nacque il nome dell’azienda. “Oh, ma lo sai che è proprio buono”, disse de Mitri. “Lo devi chiamare proprio così: Riso Buono”. Il progetto del direttore creativo comprendeva anche la creazione e il posizionamento del marchio, oltre che il vaso in vetro packaging del prodotto.
Le varietà
Da qui è partito un viaggio che ha portato i chicchi di Riso Buono a essere apprezzati in Italia e all’estero nelle ormai iconiche giare di vetro con lo stemma della famiglia Guidobono Cavalchini. Ma quali sono i segreti di questo riso? Il Carnaroli Gran Riserve “è un riso artigianale che viene fatto invecchiare un anno da grezzo, con un procedimento praticato in antichità da molte popolazioni”, ha spiegato Cristina. “Il riso invecchiato e conservato bene aumenta il proprio volume originale e questo crea una minore dispersione di amido e minerali nella cottura”. L’altra varietà che ha reso famosa Riso Buono è l’Artemide. “La varietà Artemide deriva dall’incrocio tra il riso Venere e un riso di tipo Indica”, ha illustrato l’imprenditrice romana. “È un riso integrale, aromatico, di colore nero. Il riso Artemide ha un aroma intenso e gradevole e una bella forma allungata del chicco. Data la sua stretta parentela col riso Venere ha un contenuto molto alto di ferro e di selenio”.
Ma non solo. “I miei campi sono tutti sostenibili e a circuito chiuso perché riusciamo a utilizzare tutti gli scarti del riso”. Come? Prima di tutto Riso Buono seleziona ogni chicco e non ha rotture di riso. “Abbiamo lo 0,5% di rotture di riso, rispetto al 3% dei marchi più famosi. Tutti mi dicevano ‘hai uno scarto di prodotto enorme e non ci guadagnerai mai’: io ho comprato un mulinetto austriaco da una certa Heidi con cui, sfruttando le rotture, facciamo una farina di riso per non sprecare nulla”. L’azienda produce due tipi di farine di riso: quella di Carnaroli e quella di Artemide. Il procedimento, con una macinazione lenta delle rotture del riso lavorato, consente di conservare le caratteristiche e i valori nutrizionali del Riso Buono.
Il futuro di Riso Buono
Dopo quasi 11 anni di attività, Riso Buono è rimasta un’azienda atipica, con una struttura che non rispetta le rigide gerarchie tipiche delle più grandi realtà. “In Riso Buono”, ha spiegato la fondatrice, “siamo meno di dieci persone. Non ho un export manager ma lavoriamo ancora attraverso il buon vecchio porta a porta. In Italia abbiamo circa 700 clienti che si interfacciano direttamente con noi. Anche quando sono andata all’estero non ho cambiato il mio approccio: conosco tutti coloro a cui vengono venduti i nostri prodotti”.
Cristina Brizzolari è uno spirito vivace e curioso e cerca sempre nuovi stimoli: “Io di solito ogni dieci anni cambio lavoro”, ha concluso l’imprenditrice agricola. “Dopo dieci anni di Riso Buono, nel settembre 2023, è arrivata la nomina a presidente di Coldiretti Piemonte. Questo nuovo incarico mi rende orgogliosa perché sto imparando tante cose e sto conoscendo persone che hanno a cuore l’agricoltura italiana”. Il futuro è ancora da scrivere: “Riso Buono non l’ho cercata, è arrivata e sono venuta qui: chissà cos’altro potrà arrivare”. L’obiettivo resta uno: “Sono felice così. Io vorrei solo che mio figlio si ricordasse che prima di Riso Buono in queste terre non c’erano più le rane e nel momento in cui noi siamo arrivati sono tornate”.
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