Contenuto tratto dal numero di aprile 2025 di Forbes Italia. Abbonati!
Lo possiamo definire america-italiano. Dagli Usa all’università di Bologna, andata e ritorno di competenze, visioni, collegamenti. Il libro dei libri, il più importante (Il nostro futuro. Come affrontare il mondo dei prossimi vent’anni), scritto per Felitrinelli nel 2016, una vita tecnologica fa, che diventa best seller (800mila copie vendute in tutto il mondo) e si candida a Bibbia ante litteram della transizione digitale. Alec Ross è esperto di tecnologia, già consigliere del dipartimento di Stato con Hillary Clinton e guida della politica tecnologica per la campagna presidenziale di Barack Obama. Oggi vive tra gli Stati Uniti e l’Italia, dove è distinguished adjunt professor alla Bologna Business School.
Con il secondo libro (I furiosi anni venti. La guerra fra Stati, aziende e persone per un nuovo contratto sociale, 2021) riconferma una visione che fa il tifo per l’Europa e l’Italia, a cui dà una grande chance di successo nell’universo intelligenza artificale. A patto che si verifichino alcune condizioni.
Chi detiene lo scettro dell’IA?
In questo momento c’è una battaglia per lo scettro. Una questione totalmente aperta negli Stati Uniti, con otto-dieci concorrenti importanti. E adesso c’è anche la Cina. È come negli anni ‘90, con la nascita del mondo del World wide web: non si intravede un’oligarchia, ma si intuisce che ci sarà. In realtà adesso ci sono grandi imprese super rilevanti – tipo Google e Microsoft -, ma per la maggior parte i grandi concorrenti sono startup o azienze sconosciute fino a pochi anni fa, come Nvidia o OpenAI. Non è ancora un’oligarchia, anche se Google e Microsoft sono molto potenti. La battaglia è ancora aperta.
Come sviluppare un’efficace azione di contrasto e regolamentazione? E chi deve farlo?
Sono molto scettico sugli sforzi che si stanno facendo per regolare l’intelligenza artificiale, perché in questo momento non sappiamo esattamente come si svilupperà lo scenario. Ancora una volta, come negli anni ‘90 con internet. Nessuno è in grado di prevedere lo sviluppo dell’IA. Per questo trovo sbagliato l’AI Act dell’Ue, il regolamento europeo, che ha quasi distrutto lo sviluppo del settore in Europa congelando tutti gli investimenti. Burocrati e avvocati – tecnologicamente analfabeti – hanno scritto una legge che rende quasi impossibile lo sviluppo dell’IA e dei large language model in Europa, che in questo momento non è in grado di competere con cinesi e americani. Non sono d’accordo su queste regolamentazioni calate dall’alto. Meglio, molto meglio, lasciare mano libera agli imprenditori e agire su prodotti e servizi che riflettono valori europei. Diversamente il rischio è quello di essere colonizzati da americani e cinesi.
Reazioni istituzionali a parte, l’Europa è messa male anche dal punto di vista industriale e della competitività?
Si, purtroppo ci sono tante cose da cambiare. La prima è che, invece di assumere una posizione di difesa, di fronte a questi grandi cambiamenti dobbiamo accettare e abbracciare il futuro, liberare i grandi talenti che abbiamo in Italia e in Europa. Il sistema – sia industriale che di governo – frena l’innovazione. Ci sono eccezioni, certo, ma dobbiamo avere una mentalità più ‘cowboy’ e meno burocratica. Un po’ di coraggio e audacia di tipo americano. Non dico che questo approccio sia sempre quello giusto, ma nell’ambito dell’innovazione adesso servono più cowboy che avvocati.
Soluzioni? Una, dieci Silicon Valley nel nostro continente?
In questo momento non dobbiamo vivere l’ossessione di competere con ChatGPT o DeepSeek, ma pensare in termini di applicazioni. C’è un’enorme quantità di denaro a disposizione per chi le sviluppa in settori di eccellenza, come la manifattura avanzata, l’agroalimentare o le spedizioni. La strada giusta è investire nelle applicazioni di settore che valgono miliardi di dollari, ma senza dover investire miliardi per realizzarle. Creare IA in settori strategici, insomma: penso siano questi gli investimenti più intelligenti e saggi.
Quindi c’è una questione di competenze e di processi formativi. Le università italiane ed europee sono attrezzate per preparare ai nuovi mondi ?
Sono molto ottimista per l’Italia e per l’Europa in generale, proprio grazie ai nostri giovani talenti. Ho visitato le più grandi e importanti aziende, da Microsoft a Google e Apple, che sono piene di europei e di italiani. Perciò dobbiamo dare credito al sistema accademico italiano ed europeo, che è in grado di produrre grandi talenti, ma dobbiamo tenerli qui, farli diventare imprenditori in Europa. Il sistema accademico funziona, e anche bene. Basti pensare alle eccellenze in tecnologia: dall’università di Bologna al Politecnico di Bari, fino a quelli di Torino, Milano e Trento. Università che hanno programmi importanti e che formano talenti grandiosi. Dobbiamo aumentare il volume, ne abbiamo bisogno sempre di più.
Quindi siamo in grado di creare valore internazionale spendibile.
Sì, io ci credo molto. Il mio obiettivo in Italia è creare valore. Non voglio essere un turista e non voglio che l’Italia diventi solo un grande resort, dallo sci nelle Dolomiti alla tintarella sulle spiagge del Mezzogiorno. Il mio impegno è aiutare a liberare i grandi talenti italiani affinché i prossimi 20 anni siano più prosperi degli ultimi 20. Rimango ottimista. Solo gli ottimisti cambiano il mondo. I pessimisti piangono nel caffè e si lamentano di un mondo immaginato, inventato e guidato dagli ottimisti.
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