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“Un bravo curatore d’arte è quello che si rende invisibile tra le opere”

Articolo tratto dal numero di maggio 2024 di Forbes Italia. Abbonati!

Luca Cantore D’Amore non ama definirsi un curatore, né tantomeno un critico d’arte. Ama l’etimologia delle parole, e per questo le sceglie con attenzione quasi chirurgica, indagandone il significato profondo.

Con una formazione in architettura d’interni e successivamente in storia dell’arte, oggi è il direttore artistico della Galleria d’Arte Domestica di Milano, del programma artistico dello studio di architettura internazionale Il Prisma, della Fondazione Gatto di Salerno e di svariate altre attività per la cultura.

    Luca Cantore D’Amore (crediti: Gianluca Gatta)
    Luca Cantore D’Amore (crediti: Gianluca Gatta)
    Luca Cantore D’Amore (crediti: Gianluca Gatta)

Un divulgatore di bellezza

“Un bravo curatore d’arte? È quello che sparisce, che si rende invisibile e irriconoscibile tra le opere. Come un buon restauratore: se riconosci il suo tocco, allora significa che ha fallito”, dice D’Amore. Prima di ogni altra cosa, però, è un appassionato divulgatore della bellezza e dello stile, inteso nella sua accezione antropologica.

“Dall’analisi delle proporzioni di un edificio fino alla comprensione dell’immaginario di un artista, ho dedicato la mia vita allo studio della bellezza, dello stile e dei concetti che la definiscono. Se da un lato esistono canoni estetici, dall’altro è soggettiva e indefinibile, includendo elementi distanti e contrari, come lo squallore, le brutture. Ne sono un esempio i film di Paolo Sorrentino, splendidi nel raccontare la desolazione umana, oppure le fotografie dei cafoni di Umberto Pizzi. Del resto, la bellezza della vita non sta nel racchiudere anche il suo opposto, ovvero la morte?”.

Riconoscere la bellezza con l’einfühlung

Per riconoscere la bellezza in un’opera d’arte, Cantore D’Amore si affida alla einfühlung, ovvero a quella teoria formulata dal filosofo dell’arte tedesco Robert Vischer secondo la quale l’arte consiste in un’immedesimazione profonda, in un rapporto di empatia tra l’opera e chi la osserva.

“Quando mi devo confrontare con un’opera faccio due esercizi: il primo è quello di dimenticarmi tutto ciò che conosco, tutte le sovrastrutture. Il secondo è quello della einfühlung: mi lascio attraversare e trasportare dall’emotività che mi suscita quel lavoro. Dal punto di vista collettivo, invece, c’è un unico giudice dell’arte: il tempo. Se a distanza di 500 anni ci meravigliamo ancora osservando La Gioconda, c’è un motivo. Ciò che resiste al tempo è arte”.

Senza tempo è anche il bisogno fondamentale dell’uomo di esprimersi attraverso l’arte. “L’arte si fonda sul dolore: se gli esseri umani non soffrissero, non sentirebbero la necessità di scrivere poesie o romanzi, di dipingere paesaggi, di creare. C’è poi il timore della morte, che si rivela nell’esigenza di lasciare una traccia e nel cercare di cogliere l’essenza della vita. La grande capacità dell’arte sta nel saper provocare un sentimento di immedesimazione, nel suscitare emozioni e renderle per questo reali. Sfido chiunque, anche chi non ha mai amato, a guardare Il bacio di Edvard Munch senza sentire la vibrazione di quell’amore, senza percepirla fisicamente. L’arte ha il potere di far comprendere le sfumature della vita, anche quelle che non abbiamo provato”.

Ma come si capisce quando un artista è destinato ad avere successo? “Mi piace parlare di creatività logica: se un artista vuole fare grandi cose deve osservare come si muove il mondo e deve sapercisi innestare. Il talento oggi non basta: ci sono il marketing, il gallerista giusto, gli eventi. Queste variabili sono indispensabili quanto il talento. Poi c’è l’ossessione. L’ossessione supera il talento, sempre. Ci vogliono ossessione, talento e metodo per sfondare. E non bisogna stancarsi mai”.

L’estetica del decanter

Con ossessione e metodo, D’Amore ha scritto anche il suo romanzo d’esordio, L’estetica del decanter: un’architettura sentimentale di un giovane Werther contemporaneo alle prese con emozioni sotterranee e riflessioni sul senso della vita. “L’ho scritto in nove giorni: la notte registravo le note vocali sullo smartphone, di giorno le trascrivevo. Sono un godereccio, un animale sociale, eppure in quel periodo mi sentivo aggredito dalla solitudine. Iniziai a riflettere sul concetto di eleganza: il termine deriva dal latino ‘ex legere’, ovvero ‘scegliere tra’.

Questo vuol dire che l’eleganza non è immanente alle cose: è il fatto di sceglierle a renderle eleganti o meno. Provocatoriamente, nel libro arrivo alla conclusione che l’oggetto più elegante del mondo sia il proprio il decanter: clamorosamente inutile – tanto che alcuni lo usano come vaso –, eppure di una bellezza sconvolgente, essenziale. Siamo tutti dei decanter: un po’ pieni e un po’ vuoti, molto confusi sulla nostra vera essenza. L’estetica del decanter è la storia di tutti, vuole far sorridere sull’insensatezza della vita”.

Non prendersi troppo sul serio e sorridere davanti alla tragicità del mondo sono due lezioni imparate dalle storico dell’arte Philippe Daverio: “Ha introdotto nella storia dell’arte un elemento inedito: il sorriso. Era proprio così, divertente, bello. Un gigante dell’anima sorridente. Lo conobbi quando mi fu assegnata una mostra importante a Milano alla Fabbrica del Vapore, avevo 24 anni. All’evento di inaugurazione dovevo parlare dopo di lui ed ero terrorizzato: cosa potrò dire di interessante dopo di lui?

Quando l’autista ci riaccompagnò a casa, mi disse: ‘Dammi del tu’. Notando il mio imbarazzo, continuò: ‘Non ti illudere, il tu è più responsabilizzante del lei, perché da questo momento puoi solo deludermi’. Mi invitò ad andare da lui ogni lunedì: parlavamo di tutto, a volte chiedeva il mio parere sui suoi articoli. Fu l’inizio di una grande amicizia: da lui compresi come, se lo vogliamo davvero, possiamo trasformare la nostra vita in un capolavoro. Un insegnamento che ancora oggi porto con me”.

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