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Come i “vent’anni” sono diventati l’unità di misura della politica italiana

Silvio Berlusconi in conferenza stampa a Palazzo Chigi, 2003.

Racconta Bernard Lewis, uno dei più grandi orientalisti britannici, in una lezione intitolata The periodization of history, di una volta in cui ricevette una richiesta da un prestigioso accademico inglese, Sir Maurice Powicke, ai tempi uno degli storici medievalisti più conosciuti, e del disorientamento che ne seguì scoprendo che insegnava Storia moderna all’università di Oxford. Un medievalista che insegna storia moderna! Così Lewis chiese a un amico di Oxford come fosse possibile, e questo gli rispose, con un sorriso quasi sprezzante, che a Oxford la storia moderna inizia con la caduta di Roma. Lewis racconta questo aneddoto per introdurre un discorso articolato sulle complessità della periodizzazione storica, e mi ritorna ciclicamente in mente, ogni volta che in un dibattito politico sento utilizzare l’espressione “gli ultimi vent’anni”.

Da un certo momento in poi, nel dibattito pubblico italiano abbiamo iniziato a utilizzare i vent’anni come l’unità spazio-temporale di riferimento per individuare un periodo storico che deve essere superato e cancellato. I vent’anni sono diventati una cesura, un confine tra una fase storica e un’altra, senza che sia chiaro a quale era politica si faccia riferimento. C’entra sicuramente la passione per le cifre tonde, perché ci piacciono le cose semplici e facili da elaborare, anche se siamo consapevoli della totale arbitrarietà di questa scelta (e del fatto che il sistema decimale, in fondo, è un incidente evolutivo, legato al numero di dita che ci ritroviamo). E così anniversari, celebrazioni, nostalgia sono legati a decennali, ventennali, trentennali. Ma se è normale celebrare ventennali e trentennali, o ricordare i propri vent’anni come una stagione irripetibile, lo è un po’ meno l’uso dei vent’anni come unità spazio-temporale nel dibattito pubblico.

Il punto di riferimento di questi vent’anni dovrebbe essere l’inizio della Seconda repubblica, ma non è chiaro quale sia l’evento generatore: Mani Pulite (1992), la fine della Democrazia cristiana o la discesa in campo di Silvio Berlusconi (1994)? Se oggi parliamo della politica italiana degli ultimi vent’anni dobbiamo ricordare che vent’anni fa, nel 1998, c’erano già stati il primo governo Berlusconi, il governo Dini e il primo governo Prodi. Ma l’uso dei vent’anni, oggi, non è evidentemente un criterio di periodizzazione storica, ma un’espressione simbolica. Finita – apparentemente – l’era di Silvio Berlusconi, nella politica italiana si è innescata una rincorsa alla Terza repubblica, all’apertura di una fase politica nuova in completa discontinuità con quella precedente. E così il nuovo, per accreditarsi come veramente nuovo, si è dovuto mettere in contrapposizione con tutto quello che lo ha preceduto. La rottamazione di Matteo Renzi si è confrontata con la guida del Partito democratico degli ultimi vent’anni, il Movimento 5 Stelle prometteva di radere al suolo la politica italiana degli ultimi vent’anni. E così, quell’unità spazio-temporale ha sostituito quelle più naturali in un dibattito politico – la durata di una legislatura, una segreteria politica, il governo precedente – per diventare un artificio retorico, tanto approssimativo quanto efficace. La crisi economica, l’idea di insicurezza, il declino industriale e sociale hanno trovato un rifugio rassicurante nell’idea che siamo alla fine di un ciclo, che una stagione politica è sul punto di essere spazzata via, e che tutto cambierà. Ma il passaggio da un periodo storico a un altro non è sempre netto e marcato, e può essere anche un lento scivolamento.

Il fatto nuovo, per chi oggi indica gli ultimi vent’anni come un’era geologica da superare, è la propria apparizione sulla scena politica. Ma è marketing, non un’analisi, perché la cesura storica non c’è stata e il sistema politico attuale è in perfetta continuità con quello generato da Mani Pulite, un’evoluzione naturale della stagione iniziata con la discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Nel suo Deja Vu (Il saggiatore), il giornalista e commentatore politico Francesco Cundari elenca i leader del centrosinistra candidati e/o nominati alla guida del governo nella Seconda repubblica dal 1996 a oggi: dieci; poi elenca i leader del centrodestra candidati e/o nominati nello stesso periodo: uno, Silvio Berlusconi. Siamo nel 2018, e sono passati ventiquattro anni dalla sua discesa in campo.

“Gli ultimi vent’anni” sono un orizzonte retorico, nel tentativo di togliersi di dosso un’idea di continuità con il passato e di raccontarsi come una storia dirompente che ci proietterà nella Terza repubblica. Invece è il caso di rassegnarci al fatto che siamo ancora un’evoluzione di questi ultimi venticinque anni, siamo della stessa sostanza del 1994 e in piena Seconda repubblica, e l’evento cruciale che ci dovrebbe trascinare in una nuova era politica – una rivoluzione giudiziaria, una guerra, una riforma istituzionale, l’esondazione del Tevere – non si è ancora visto, nemmeno da lontano. Aspettiamo il 5 marzo.

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