Oggi il valore commerciale di un cantante non è dato “semplicemente” dalla sua musica, ma è il risultato più o meno diretto della valutazione di una serie di indicatori: le visualizzazioni dei suoi video su YouTube, le sue interazioni su Instagram e Twitter, e – soprattutto – i suoi stream su Spotify. I dati della Riaa, l’ente discografico statunitense, dicono che quasi due terzi dei ricavi del mondo della musica oggi sono imputabili ai servizi in streaming come Spotify: quest’ultimo ha una posizione dominante nel mercato, con i suoi 159 milioni di utenti attivi e 71 milioni di abbonati (Apple Music, per capirci, arriva a malapena alla metà).
In questo stato di cose, gli artisti emergenti hanno uno strumento principe per “fregare il sistema”: le playlist. Spotify ha reso le liste di pezzi musicali la sua caratteristica principale, creando più di 2500 playlist per qualunque occasione quotidiana con cui aumenta l’engagement suoi utenti; alcune sono frutto del lavoro della redazione dell’app – composta da 150 persone – mentre altre sono generate da un algoritmo continuamente perfezionato. Nella sua ultima relazione agli investitori del mese scorso, Spotify ha dichiarato che dalle playlist passa un terzo degli ascolti totali sulla piattaforma.
Un articolo uscito su The Daily Dot indaga tuttavia un fenomeno che definisce “in forte espansione”: il mercato nero delle playlist degli utenti di Spotify. “I discografici e i pr ora fanno proposte e collaborano coi tastemaker dei servizi in streaming, come in passato avevano fatto per decenni con le radio e la carta stampata”, si legge nel pezzo. Un’aggiunta a una playlist può generare effetti a cascata di “buzz”, e ci sono playlist così seguite da poter determinare la fortuna di un artista: RapCaviar, ad esempio, coi suoi 8 milioni di follower.
Nel 2015, Billboard aveva già svelato la nuova prassi degli accordi economici sottobanco per sponsorizzare un cantante: un anonimo dirigente dell’industria discografica aveva confessato che un inserimento in una lista con poche decine di migliaia di seguaci costava 2000 dollari, ma i posti più ambiti potevano arrivare a costarne 10mila. Da allora Spotify ha aggiornato le sue Condizioni d’uso, proibendo l’accettazione di “ogni compensazione, finanziaria e non, per influenzare il nome di un account o una playlist”. Da allora però il trend ha solo cambiato volto: oggi, spiega The Daily Dot, siti come SpotLister permettono a un artista di sottoporre una canzone all’attenzione degli utenti con più seguito su Spotify, e per somme anche piccolissime – fino a 2 dollari – aprono un varco nel loop magico della fortuna discografica. Cody Patrick, manager della scena rap di Atlanta, ha dichiarato al sito: “Alcuni curatori che gestiscono diverse playlist mi hanno offerto acconti mensili per rimanere nelle loro liste per un certo periodo di tempo. Ho visto anche chi offre piani di posizionamento: paghi così per essere fra le Top 10, così per stare a metà, così per entrare e basta”.
Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .
Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .