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No, Facebook non sta vendendo i vostri dati personali

Quel che i critici di Facebook non dicono.

L’ondata di sdegno per il “furto di dati da Facebook” è una bolla. E il pericolo (quello vero) non è dove lo identifica la stampa internazionale dopo il caso di Cambridge Analytica, la società di data analytics accusata di aver utilizzato metodi poco ortodossi per profilare gli utenti del social network a vantaggio della campagna Leave della Brexit e del fronte pro-Trump. In realtà non c’è stato nessun trafugamento, nessuna sottrazione di dati in senso stretto: nessuno si è impossessato di numeri di telefono, tessere sanitarie, carte di credito, ma dei nostri gusti, delle nostre preferenze, dei nostri comportamenti, delle nostre reti amicali, della nostra localizzazione e dei nostri viaggi. Quello che è successo è che qualcuno ha usato il modello di business di Facebook, sfruttando una sua zona grigia del sistema: sì, fino a qualche anno fa (il 2014, per la precisione) con le Terms and Conditions di Facebook accettavi che i tuoi amici dessero accesso ai tuoi dati installando una loro app. E certamente non un consenso esplicito, che viene richiesto dalle norme attuali.

C’è un altro passaggio da considerare nel farsi un’idea di quanto successo: gli stessi giornali che si stracciano le vesti per il presunto leak di dati di Facebook hanno ciascuno una decina di tracker che passano i dati di navigazione degli utenti a società di advertising tecnologico (tra le quali, ancora, Facebook): la “vendita dei dati del lettore”, in fondo, è quello che la stessa stampa mainstream fa con ogni suo pageview. Cosa sappiamo degli incroci (ricongiungimento, in gergo tecnico) tra cookie fatti da società di advertising tech, a partire proprio dalle pagine editoriali dei siti web? La risposta è: quasi nulla. Anche in questo caso noi lettori non rilasciamo dati personali, ma i nostri comportamenti e le nostre preferenze vengono tracciati e utilizzati in modi che non conosciamo.

La “vendita dei dati personali da parte di Facebook” (come la stampa chiama ormai la vicenda Cambridge Analytica) avviene già tutti i giorni, da anni. I dati di profilazione sono in ogni caso i soliti noti, che concediamo spontaneamente a Facebook ogni giorno: il modello economico sta in piedi proprio perché il “prezzo di acquisto” dei dati è basso. Facebook “acquista” dati degli utenti in cambio del servizio, i giornali online li “acquistano” sulla base di notizie gratis.

C’è un detto talmente diffuso nel settore dei media (non solo quelli digitali, ma anche – per dire – nella free press cartacea) da essere ormai stucchevole: “Se il servizio è gratis, il prodotto sei tu”. Ma se prendiamo questo assunto per vero, allora dobbiamo pensare che per la stragrande maggioranza delle persone questo prodotto valga davvero poco. Pensate a quanto spazio hanno avuto tutte le bufale terroristiche circa il futuro passaggio a pagamento di Facebook. La svolta da app a pagamento a free di WhatsApp, anni fa, suscitò ben più entusiasmo che sospetto negli utenti. E sempre su WhatsApp, le catene di messaggi fake riguardano molto più il pericolo di un improbabile pagamento che i dubbi circa la condivisione dei dati con Facebook (che sembra invece interessare molto la politica europea di Bruxelles).

“Quando il servizio è gratis, il prodotto sei tu”.

La verità è che, nonostante l’indignazione della stampa, agli utenti della loro privacy pare davvero importare poco. Hashtag come #cambridgeanalytica e simili su Twitter vengono discussi solamente da giornalisti, oltre ai soliti noti privacy-apocalittici-freak. È altamente probabile che anche dopo questo scandalo non ci sarà nessuna fuga di massa da Facebook: l’utilità che lo strumento dà (controllare gli amici, discutere nei gruppi, indignarsi nei commenti) supera, per il 99.99% delle persone, il valore intrinseco della privacy dei propri comportamenti online. Di fronte all’intrattenimento gratis 24 ore su 24 – news gratis, video gratis, tutto gratis – cosa sono i nostri dati? Non è un caso solamente occidentale: ai visitatori stranieri in Cina risulta incredibile che i cittadini cinesi non si preoccupino del controllo governativo sulla rete. L’importante, essenzialmente, è che la connessione funzioni, che Weibo funzioni, che WeChat funzioni.

Ciò che ha fatto Cambridge Analytica è marketing data driven microtargetizzato, come viene comunemente detto dagli addetti ai lavori. I dati e i messaggi sono due facce della stessa medaglia: posso decidere di mandare un messaggio che recita “il sindaco non ha riparato le buche nelle strade” ai possessori di auto, e contemporaneamente “il sindaco non ha fatto niente per la disoccupazione!” ai disoccupati. A ognuno la propria Unique Selling Proposition, come un dentifricio o un’automobile qualsiasi. Va da sé che tutto questo è estremamente potente e profittevole, a livello pubblicitario.

Facebook uscirà da questa storia con un doppio risultato: da una parte avrà spaventato una parte dei suoi utenti (minoritaria, come abbiamo visto), ma si sarà posizionato come l’arma definitiva del marketing che ogni imprenditore vorrà utilizzare. Il problema di Facebook è, paradossalmente, che funziona troppo bene. A livello sociale, il problema non è il presunto data leak, ma il modello a monte: siamo disposti a usarlo anche per la politica, oltre che per il dentifricio? E il fatto provato che le persone siano influenzabili da piccole promesse o paure iper-personalizzate è davvero colpa di Facebook, o quest’ultimo è solo lo strumento che fa emergere un modello di pensiero pre-esistente nelle persone? E quindi, a questo punto, la domanda finale: è più “democratico” permetterlo o vietarlo?

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