Nel secolo scorso i vertici del capitalismo tendevano a essere lontani, inaccessibili, letteralmente separati dal “mondo comune”. Questo non valeva solo per il proletariato: la netta distinzione della vita dei grandi capitani d’impresa da quella della borghesia era evidente, e si concretizzava nel gap di classe con il fossato più ampio e più infestato di coccodrilli.
All’epoca ci avevamo fatto l’abitudine. La distanza tra “padroni” e resto del mondo era un fattore accettato da tutti, talmente sedimentato nell’ordine delle cose da entrare nella cultura popolare. Non è un caso che in quel gran racconto dell’Italia media che è Fantozzi, il Megadirettore Galattico fosse rappresentato come un’irraggiungibile entità a metà strada fra il terreno e il divino, confinata in un iperuranio monastico come i suoi pari: i membri del Gran Consiglio dei Dieci – guarda un po’ – Assenti. Anche le chiacchiere da bar tenevano conto di questo naturale ordine sociale che tendeva a piazzare i leader delle grandi imprese in un mondo separato e diverso dal nostro.
Da nativo torinese ho intercettato più volte, fino a quando era in vita, le leggende metropolitane su Giovanni Agnelli e sulle sue miracolose manifestazioni nel mondo di noi comuni cittadini. Erano tutte false al limite della credibilità, e come tali diffusissime.
Ciò che non si vede – lo insegna Paolo Villaggio stesso con la cronaca immaginaria della partita Italia-Inghilterra negata ai dipendenti alle prese con la proiezione aziendale della Corazzata Kotiomkin – spesso diventa oggetto “voci incontrollate e pazzesche”, come l’epico e immaginario goal di Zoff su calcio d’angolo. Ho poi scoperto che, cambiata città, le stesse leggende metropolitane erano attribuite ai capitani d’industria locali.
Non vorrei passare per nostalgico, ma l’epoca dei capitani silenziosi, chiusi nel loro mondo inaccessibile e parchi nei loro contatti con la nostra quotidianità, portava sicuramente con sé il fastidio dell’esercizio del peggiore classismo, ma aveva un pregio accessorio: il silenzio. Parlavano poco, i leader d’industria della vecchia scuola. Esternavano quasi esclusivamente quando era necessario e ogni loro uscita pubblica era a modo suo un evento, spesso addirittura illuminante, come l’intervista televisiva di Gianni Agnelli a Mixer, a opera di Giovanni Minoli, nel 1984.
Questo non vuol dire che i vertici del capitalismo facessero una vita ritirata: per anni hanno riempito i rotocalchi, attenti a quello che all’epoca si chiamava il jet-set con le loro feste e le loro vacanze esclusive. Tutto, però, era visto da lontano, concedendo a noi comuni cittadini giusto lo sguardo di qualche teleobiettivo indiscreto. E le rare volte in cui i due mondi si incrociavano, per esempio sulle tribune di uno stadio, i capitani d’impresa sfuggivano al contatto e si limitavano, se proprio necessario, a parlare ai giornalisti e ad abbandonare gli spalti prima della fine della partita.
Al netto degli stili di vita dei singoli, i “padroni” di una volta condividevano due tratti fondamentali: una naturale indifferenza nei confronti dell’uomo comune e una certa distanza dai prodotti delle proprie aziende. Erano, insomma, molto attenti a rimarcare la differenza tra loro e i cittadini semplici e, all’interno delle loro aziende, tra leader/titolari e venditori.
Anticipato dalla politica, che ha progressivamente visto la figura del funzionario grigio e austero cedere il passo alle leadership affascinanti, il capitalismo occidentale ha invertito, negli anni, il paradigma. Piaccia o no, viviamo nell’epoca delle leadership economiche estroverse e informali. Sembra che, nell’era della disintermediazione, si siano rotte tutte le barriere, incluse quelle che riparavano i ceo delle grandi aziende dai riflessi del nostro mondo. Anzi, nel 2018 sono spesso loro in prima persona a rivolgersi ai consumatori, a cercarli per intercettare il loro consenso e talvolta a cercare di vendere i loro prodotti.
È difficile, nel panorama attuale, scindere l’Elon Musk imprenditore dall’Elon Musk inventore e divulgatore, così come è difficile non considerarlo al contempo un grande venditore diretto, in grado di far andare a ruba in poche ore perfino 20mila (blandi) lanciafiamme brandizzati dalla sua Boring Company, un po’ per gioco, un po’ per sfida.
L’associazione tra Musk stesso e brand come Tesla e Space X è immediata: il capitano d’impresa diventa al contempo testimonial, agit-prop e addetto alla narrazione di marca.
Anche Mark Zuckerberg, forte del suo understatement nei modi e nel look, si presenta in prima persona come artefice di successi e insuccessi della sua piattaforma. Lo fa parlando direttamente ai consumatori finali con il mezzo più disintermediante di tutti: un post pubblico su Facebook. Negli ultimi giorni, in pieno scandalo di Cambridge Analytica, non solo ha postato pubblicamente le sue scuse a nome di tutta la sua azienda, ma si è preso tutte le colpe di persona. Colpe ovviamente non sue, ma ormai da un amministratore delegato di una grande azienda ci si aspetta che copra più ruoli, incluso quello della sineddoche.
Allargando lo sguardo rispetto ai due esempi più contemporanei di ceo che si espongono in prima persona, è facile notare una progressiva tendenza alla spettacolarizzazione del ruolo del capitano d’impresa, chiamato ad andare oltre alla funzione di buon leader e businessman. Possiamo immaginare la fatica fisica e “culturale” degli amministratori delegati delle grandi aziende tecnologiche – fino ad allora relegati a un sostanziale anonimato – negli anni in cui Steve Jobs rendeva le presentazioni dei prodotti Apple un rito collettivo officiato da lui in persona, con tanto di abito sacro (e quindi immutabile) d’ordinanza. Eppure i keynote Apple hanno fatto scuola, e progressivamente tutta l’industria tecnologica si è adeguata e ora è perfettamente normale vedere gente come Sundar Pichai, ceo di Google, affannarsi a presentare in prima persona su un palco i nuovi prodotti della sua azienda seguendo alla lettera il modello perfezionato a Cupertino, incluso il look informale di chi parla.
La nuova economia-spettacolo in alcuni mercati chiede ai suoi leader di essere non solo vincenti, ma anche convincenti. Il rischio è noto: l’eccesso di spettacolarizzazione e di esposizione del “capo” rischia di trasformarsi in avanspettacolo o di mettere in mostra debolezze, difetti o tratti folkloristici dei protagonisti. L’elenco dei “fail” pubblici dei capitani d’impresa è sempre più copioso e cresce tanto più aumenta l’esposizione di questi ultimi. Ogni errore pubblico dei top manager esposti al pubblico e sostanzialmente indifesi fa danni prolungati, nell’era in cui una gaffe può diventare un meme con milioni di click in pochi secondi.
Sono sufficienti due esempi. Il primo è un classico caso di sconfinamento tematico: ospite in una trasmissione radiofonica nel 2013, Guido Barilla, ebbe la balzana idea di affermare che l’azienda che porta il suo nome non avrebbe mai fatto uno spot con protagonista una coppia omosessuale, perché credeva nella famiglia tradizionale. Finì malissimo, con il board dell’azienda che prendeva le distanze dal proprietario (che fu poi costretto a scusarsi ufficialmente), le associazioni anti-discriminazione giustamente indignate che avviavano boicottaggi e una polemica che finì su tutti i media e danneggiò non poco l’immagine ecumenica del brand Barilla.
Il secondo è un altro caso ricorrente: l’oversharing, cioè la condivisione con il mondo intero di contenuti che sarebbero potuti (anzi, in molti casi sarebbero dovuti) restare privati o riservati ai soli interessati.
È il caso di Luca Luciani, nel 2008 alla guida dei Domestic Mobile Services di Telecom Italia. La sua accorata perorazione alla privatissima convention dei venditori aziendali di quell’anno fu trasmessa pubblicamente in streaming, forse per dare una platea più ampia a un top manager giovane e di bell’aspetto, che sembrava avere il phisique du rôle per diventare un grande leader.
Fu un errore gravissimo, perché Luciani pensò bene di infilarsi in una ardita metafora storico-calcistica per spronare la sua forza vendita, invitandola a segnare (sic), “come fece Napoleone a Waterloo”. Per giorni fu lo zimbello della rete, complice anche il fatto che qualche secondo dopo la sua gaffe chiamò il condottiero corso “Napoletone”. Finì in home page, ovviamente nei colonnini laterali dedicati al materiale morboso, sui siti dei principali quotidiani italiani.
Resta da chiedersi se il nuovo protagonismo delle classi dirigenti economiche sia una moda passeggera e ci sia all’orizzonte una rinnovata austerità d’immagine per i capitani d’impresa. L’impressione è che questo fenomeno risponda a precise esigenze sociali e sia destinato a restare in voga a lungo, soprattutto per le aziende che hanno business basati sulla reputazione di marca.
La spettacolarizzazione dei leader e il ricorso al “fascino” in contesti business sono strumenti che rafforzano l’identità di molte grandi aziende, dando loro un volto umano con cui i consumatori hanno più facilità a rapportarsi. L’eccesso di personalizzazione, tuttavia, come si diceva può avere effetti negativi, primo fra tutti l’identificazione tra un’impresa e l’uomo che la guida (cosa auspicabile fino a quando il leader è immacolato, ma potenzialmente rovinosa per la reputazione aziendale se, come capita, il leader va fuori controllo e inizia a sbagliare o, banalmente, diventa antipatico alle masse). Il secondo principale effetto negativo è la messa in ombra della natura collettiva dell’azienda, che rischia di essere legata eccessivamente alle sorti di uno solo. Sotto questo aspetto, è difficile replicare il modello di Apple, che si è rivelato vincente. Steve Jobs, pur mettendosi al centro della scena, ha sempre lasciato spazio ad altri leader all’interno della sua azienda, coltivandoli come “personaggi” rilevanti nella narrazione di marca, al punto che sono sopravvissuti al fondatore e tuttora sono il “volto” della stessa Apple.
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