Ogni volta che si entrava alla Fondazione Prada per visitare una mostra, o anche solo per un appuntamento al Bar Luce (quello un po’ lezioso di Wes Anderson, sì, incastonato là da qualche parte tra Grand Budapest Hotel e le vecchie pasticcerie del centro), se si aveva voglia di farci caso la si trovava un po’ più cresciuta. Negli ultimi tre anni (da quando l’ultima sede della Fondazione ha aperto, nel maggio del 2015) la Torre è stata una promessa silenziosa in mezzo al grande cortile dell’ex distilleria, un pachiderma elegante in lento mutamento: ora, l’ultimo edificio del complesso espositivo in Largo Isarco è stato finalmente aperto al pubblico (non a caso in piena Design Week milanese). Si tratta di un ulteriore ampliamento della superficie, già vastissima, adibita all’allestimento di arte contemporanea ma è anche – e forse soprattutto – uno dei molti casi in cui il contenitore espositivo gareggia in importanza con il contenuto. Una prova di bravura dell’archistar olandese Rem Koolhaas e del suo studio OMA, già collaboratori di Prada per numerosi progetti nel corso degli anni.
Sessanta metri di cemento bianco inaugurati nei giorni in cui Milano ha avuto il suo cielo più bello, esternamente austeri (un parallelepipedo compatto il cui unico vezzo è una strana struttura obliqua che lo collega al Deposito) ma all’interno decisamente spiazzanti. La Torre è suddivisa in nove piani, ciascuno dei quali offre un ambiente architettonico e una prospettiva di spazio e luce completamente diversi l’uno dall’altro. Li percorre in verticale un ampio ascensore panoramico, colorato di rosa e di luce naturale (prima e golosissima attrattiva per gli addicted di Instagram che mettono piede qui dentro). Li completa una terrazza con vista panoramica a 360 gradi su Milano e li arricchisce un ristorante, al livello 6, che toglie il fiato non tanto per le mensole del bar che si stagliano direttamente contro il cielo, o per gli arredi originali del 1958 del Four Season Restaurant di New York, quanto per le tre sculture di Lucio Fontana che decorano l’atrio sulla sinistra, due splendide ceramiche e un mosaico della fine degli anni ’40: sono solo alcuni degli interventi artistici che si trovano sparsi tra i tavoli e le pareti.
Tutto il resto è arte, e giochi di luce sapientemente calibrati. Le opere distribuite nelle sei sale espositive sono parte della collezione Prada, parzialmente già esposte al pubblico nelle varie sedi che la Fondazione ha avuto nel corso degli anni: raccolte sotto la curatela di Germano Celant in una serie di dialoghi a due voci (il progetto, nel suo complesso, si chiama Atlas), spaziano dagli anni ’60 ai giorni nostri e sono firmate dai nomi più noti del panorama contemporaneo internazionale. Così, Damien Hirst e William N. Copley occupano la sala più seducente, quella con un’immensa parete di vetro che nelle giornate limpide ti sbatte in faccia tutta Milano. Carsten Höller e John Baldessarri hanno invece bisogno di spazi chiusi per ricreare mondi percettivi alterati e sofisticati, rispettivamente con i celebri funghi capovolti (Upside Down Mushroom Room) e con la suggestiva Blue Line, della fine degli anni ’80. L’eleganza di Pino Pascali è in dialogo con le tele di Michael Heizer, mentre di Walter De Maria si ripropongono le Chevrolet vintage della Bel Air Trilogy che avevamo visto allestite nel Deposito all’apertura della sede di Largo Isarco. L’immensa Carla Accardi è invece presente con una serie di lavori policromi realizzati a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70, bizzarramente accostati ai giganteschi tulipani pop di Jeff Koons (si potrebbe pensare a due artisti più distanti per personalità e poetica? Eppure, vederli insieme fa un bell’effetto). E poi ci sono i coniugi Kienholz, cui si deve una delle mostre personali più interessanti degli ultimi anni alla Fondazione, in un’altra sala luminosissima insieme alla celebre artista libanese Mona Hatoum.
Se questi sono i fatti, l’apertura della Torre riporta d’altra parte l’attenzione su alcune questioni di cui si potrebbe discutere a lungo. Una in particolare, annosa per la Milano dell’arte contemporanea, rimarca la sostanziale supplenza delle grandi realtà private all’assenza di musei pubblici degni di nota. Spazi espositivi che offrono opere di questa caratura sono chiaramente da considerarsi di livello museale, quel museo del contemporaneo che in città non ha veramente mai visto la luce. È giusto, o meglio, è sano che sia così? Vale la pena lottare ancora contro questa “anomalia milanese”?
Di altro tenore, poi, è la riflessione su come stanno cambiando le modalità espositive di musei e istituzioni nell’epoca di Instagram, quella più visuale di sempre: fin dalla sua nascita, e forse più ancora con quest’ultimo gioiello architettonico, la Fondazione sembra creata a misura di fotocamera dello smartphone, e alcuni critici iniziano addirittura ad avanzare l’ipotesi che i musei stessi in anni recenti lavorino più o meno consciamente per favorire gli scatti all’interno delle proprie sale (in un articolo su The Atlantic, ad esempio, la giornalista newyorkese Katharine Schwab notava tempo fa come le istituzioni internazionali d’arte contemporanea stiano incominciando a prendere coscienza del potenziale promozionale dei social media, e a cercare strade più o meno dirette per metterlo a frutto).
Si tratta di questioni certamente legittime – che probabilmente non troveranno mai una reale definizione. Al momento però, credo ci si possa concedere il lusso di godere di quello che viene offerto alla città: il privilegio di uno spazio museale moderno, funzionale, colto e sofisticato, degno dei migliori standard internazionali per l’offerta espositiva proposta. La bulimia degli scatti Instagram nelle sale espositive, probabilmente, imploderà tra qualche anno: resteranno a disposizione, però, quelle meravigliose ceramiche di Lucio Fontana, lì, all’ingresso di un ristorante nella periferia di Milano.
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