Rivoluzionare la finanza mondiale, creare nuove piattaforme per il voto online, fornire documenti d’identità digitali ai profughi di tutto il mondo, abilitare la compravendita energetica tra privati, garantire l’autenticità dei beni di lusso e mettere in sicurezza i nostri dati personali. Queste sono alcune delle potenzialità della blockchain: il registro distribuito e virtuale reso celebre dai Bitcoin, che grazie ai “nodi” (che scaricano la blockchain sul loro computer) e al meccanismo del consenso (che non permette a un singolo attore di apportare modifiche al sistema) promette di trasformare il mondo e di accompagnarci all’Internet 3.0.
Oppure no? Sono quasi dieci anni che il white paper firmato dal misterioso Satoshi Nakamoto ha introdotto nel mondo i bitcoin; da allora le applicazioni della blockchain si sono moltiplicate, dando vita agli smart contract di Ethereum, al trasferimento di denaro istantaneo di Ripple, alla compravendita di energia pulita di Power Ledger e innumerevoli altre ancora. C’è solo un problema: tutto questo è rimasto quasi esclusivamente su carta e, nel mondo, sono pochissime le realtà che fanno veramente uso della blockchain.
“La blockchain rischia di essere una soluzione a problemi che non esistono. Siete come dei martelli in cerca di un chiodo”. A pronunciare queste parole, durante l’evento Consensus 2018 (la principale conferenza mondiale sulla blockchain, che si è tenuta dal 14 al 16 maggio a New York) non è stato uno dei tanti scettici del mondo delle criptovalute, ma Jimmy Song: partner del fondo d’investimenti specializzato Blockchain Capital. Lo scetticismo di Song non è rivolto alla tecnologia in sé, ma all’ondata di progetti poco credibili e chiaramente speculativi – tra cui si può citare la criptovaluta per dentisti DentaCoin, che ha una capitalizzazione di mercato da quasi 300 milioni di dollari – che stanno inondando il settore.
Jimmy Song non è il solo a mostrare una certa insofferenza: dalle parti di Wall Street – come riporta la Reuters – sono parecchie le società che, dopo essersi fatte prendere dall’hype per questa nuova tecnologia, stanno facendo marcia indietro. “Le banche e altri potenziali utenti della blockchain si stanno accorgendo che gli stessi risultati si possono ottenere anche utilizzando tecnologie già esistenti e più economiche”, ha spiegato per esempio Murray Pozmanter, dirigente di Dtcc (noti come “i contabili di Wall Street” e che hanno sperimentato alcune applicazioni del registro distribuito). “Fondamentalmente, è diventata una soluzione in cerca di un problema”. Parole già sentite.
Lo scetticismo che inizia a circondare la blockchain inizia a pesare come un macigno sulle speranze degli investitori e dei “crypto-entusiasti”; mentre conferenze come Consensus 2018 – con il loro carico di Lamborghini e concerti di Snoop Dogg – iniziano a ricordare quelle organizzate a Las Vegas dagli speculatori di derivati, collateralizzati e quant’altro pochi mesi prima che, nel 2007, il loro castello di carte crollasse facendo precipitare il mondo nella Grande Crisi.
A dare un altro colpo alle enormi speranze riposte in questa tecnologia sono anche due lunghi articoli pubblicati da Kai Stinchcombe su HackerNoon (testata specializzata in innovazione tecnologica, e che segue molto da vicino le vicende relative alla blockchain):
Lo scopo originale era essere il motore di valute digitali come i bitcoin; un modo di depositare e scambiare valore simile a quello di ogni altra moneta. (…) Peccato che non sia un buon sistema di pagamento: Visa può gestire 60mila transazioni al secondo, mentre Bitcoin ha il suo limite storico in sette transazioni al secondo. In più, ci vorrebbero 5mila reattori nucleari per far girare un sistema come Visa sulla blockchain.
Niente di nuovo: l’enorme consumo energetico della blockchain e le sue limitate capacità operative sono un problema che si affronta da molto tempo (e per il quale ci sono diverse soluzioni allo studio). Resta il fatto che, oggi, nessuno usa davvero i bitcoin per i pagamenti; non fosse altro perché l’enorme volatilità di questa moneta (che è passata dai 1.800 dollari del maggio scorso fino ai 20mila di dicembre; per poi precipitare agli attuali 8/9mila) rende impossibile utilizzarla come una vera valuta, ma solo come uno strumento speculativo. “Molte persone hanno immaginato che i bitcoin potessero essere adatti per i micropagamenti; per esempio versando due centesimi a un musicista per ascoltare la sua musica, o quattro centesimi per leggere l’articolo di un giornale”, prosegue Stinchcombe. “Peccato che l’infrastruttura necessaria per realizzare tutto questo elimini alla radice il bisogno di utilizzare i bitcoin”. Realtà come Satispay o anche la vecchia PayPal dimostrano che i micropagamenti istantanei sono già oggi disponibili, senza alcun bisogno di usare la blockchain. Per quanto riguarda la semplicità, basta guardare al funzionamento di Amazon One Click: conoscete un sistema più rapido ed efficace per eseguire transazioni sul web?
I dubbi sulla blockchain, comunque, vanno molto oltre l’aspetto monetario e circondano anche quella che sembra essere la sua applicazione più importante: gli smart contract, “contratti intelligenti” che eseguono automaticamente un accordo nel momento in cui le condizioni sottoscritte tra le parti vengono soddisfatte, In potenza, potrebbero eliminare il bisogno di accordare la nostra fiducia a figure come notai e tutti gli altri intermediari; il loro posto verrebbe preso del codice con cui è stato scritto il contratto intelligente sulla blockchain, immutabile e sicuro. Peccato che, come abbiamo già raccontato, le cose non stiano proprio così: il fondatore di Ethereum, Vitalik Buterin, nel 2016 ha dovuto azzerare le transazioni fatte all’interno di uno dei più grandi progetti basati su smart contract (the DAO, decentralized autonomous organization), perché un errore nella stesura del codice aveva permesso a uno dei partecipanti al progetto di sottrarre buona parte dei fondi depositati. La vicenda, in ultima analisi, ha dimostrato come ci sia sempre bisogno di riporre fiducia in un essere umano che prenda la decisione ultima – in questo caso Buterin – facendo venire meno la ragione stessa alla base dei contratti intelligenti.
“Le startup del mondo degli smart contract promettono che la blockchain consentirà pagamenti ed esecuzioni dei contratti estremamente rapidi”, si legge sempre su HackerNoon. “Invece di attendere 90, 180 giorni affinché la tua richiesta sia processata da un uomo, potrebbe essere processata sul momento. Ma questo è già vero per ogni sistema basato su software: i server del cloud di Amazon che utilizza la mia azienda scalano automaticamente in base all’utilizzo e mi inviano la conseguente tariffa”. L’unica differenza è che i termini di servizi di Amazon non sono scritti con uno smart contract, ma se il sistema di pagamento è automatizzato fa davvero tutta questa differenza?
D’altra parte, anche la possibilità di usare la blockchain per creare un nuovo sistema economico all’interno del mondo virtuale di Oculus o dei social network si scontra con una dura realtà: già agli inizi del 2000, Second Life ha fatto la stessa identica cosa, usando la moneta nota come Linden e senza bisogno della blockchain (ciò non toglie che il fondatore di Second Life stia, anche lui, sperimentando con il registro distribuito).
Vale la pena di soffermarsi su un’ultima questione: la possibilità di utilizzare la blockchain per garantire la bontà, originalità o provenienza di alcuni prodotti. Come detto, infatti, i dati inseriti nella blockchain sono immutabili (e questo aspetto, prima o poi, troverà un suo scopo nel mondo); questo però non significa che siano vere le informazioni che vengono immesse in primo luogo. “I sistemi basati su blockchain non rendono magicamente precisi i dati in essa inseriti o fidate le persone che li inseriscono; semplicemente, consentono all’utente di verificare se qualcosa è stato manomesso. Una persona che ha spruzzato pesticidi su un mango può ancora dichiarare che i manghi sono biologici. Un governo corrotto può creare un sistema di blockchain per contare i voti e assegnare un milione di indirizzi extra ai suoi compari”, si legge in un secondo saggio su HackerNoon. “Se si guarda a ogni singola soluzione basata su blockchain, inevitabilmente ci si troverà di fronte a una tortuosa strada alternativa per ricreare un sistema in cui bisogna comunque accordare la propria fiducia a qualcuno”.
Visto l’entusiasmo acritico – e a volte ridicolo – che circonda il mondo della blockchain e delle criptovalute, voci come quelle di Jimmy Song o Kai Stinchcombe sono ancora più importanti. Tanto più se si considera che, dieci anni dopo la nascita del World wide web (1991), la creazione di Tim Berners-Lee aveva già cambiato il mondo; mentre la blockchain non ha ancora dimostrato nulla. Nonostante questo, vale la pena ricordare che, per esempio, i 40 istituti bancari più grandi del mondo hanno creato il consorzio R3 per studiare le potenzialità della blockchain; e che su questa tecnologia stanno lavorando colossi come Samsung, Microsoft, Facebook, Goldman Sachs, Unilever e una marea di altre ancora. Avranno tutti preso un abbaglio?
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