Negli ultimi giorni abbiamo letto tutti, almeno una volta, questa dichiarazione: “La rifondazione del centrosinistra non può che passare da”. Di seguito potreste aver trovato un po’ di tutto: la difesa dei diritti civili, una rinnovata attenzione al lavoro, la protezione delle fasce sociali più emarginate, e così via. L’unica parola che non manca mai è “Europa“. L’hanno evocata tutti quelli che controllano un pezzetto del Partito democratico, da Maurizio Martina a Matteo Orfini passando naturalmente per Matteo Renzi. Alle ultime elezioni il composito fronte liberale alleato del Pd si è presentato con un nome inequivocabile: +Europa. Anche il chiacchierato Fronte Repubblicano di Carlo Calenda, inoltre, avrebbe “un unico obiettivo”, secondo il suo ideatore: “Tenere l’Italia in Occidente e in Europa”. In tempi in cui il premier italiano Giuseppe Conte parla – nel discorso di insediamento del nuovo governo al Senato – di “un’apertura verso la Russia”, si tratta di un posizionamento netto. Ma fare dell’Europa il perno su cui basare il futuro centrosinistra va incontro a due equivoci giganteschi, che potrebbero mettere seriamente a rischio il senso e l’efficacia del nuovo progetto politico.
Tralasciamo il fatto che dal punto di vista dei consensi sarebbe un progetto perdente, ora come ora: metà degli italiani è convinta che l’Europa stia andando nella direzione sbagliata, e più o meno un terzo, ad oggi, voterebbe per uscire dall’euro a un ipotetico referendum sulla moneta unica.
Il punto è che l’Unione Europea – la cosa più vicina a una traduzione pratica del concetto di Europa – non rappresenta il frutto di una visione politica univoca, ma è piuttosto un contenitore di cose diverse, che acquistano e perdono rilevanza a seconda delle persone e delle idee che la attraversano. Sia Angela Merkel che Emmanuel Macron si definiscono legittimamente “europeisti” ma hanno opinioni molto differenti, per esempio, su come completare l’unione economica, o trattare i Paesi che rifiutano una maggiore integrazione. Macron vorrebbe centralizzare la gestione delle finanze comunitarie, magari con un unico super-ministro, e rendere ancora più appetibile l’ingresso nell’eurozona; Merkel teme che un’operazione del genere possa annacquare la leadership della Germania e più in generale dell’Unione, e preferirebbe rafforzare la collaborazione economica e politica fra i pochi Stati occidentali che stanno sulla sua lunghezza d’onda (è la cosiddetta opzione dell’Unione “a più velocità”). Macron e Merkel, insomma, hanno idee molto diverse di cosa sarà l’Europa fra dieci anni: con chi dei due vorrebbe stare il nuovo listone europeista?
È vero che tutte le forze europeiste condividono una serie di valori che potremmo definire le regole del gioco: su tutte, la necessità di proteggere il libero mercato e la democrazia, tradotti nelle regole sulla libertà di beni e persone e negli organi politici comunitari, un contrappeso unico al mondo. Infine, evocare l’Europa porta con sé un consenso identitario che richiama l’inclusione e il cosmopolitismo (pensate alla cosiddetta “generazione Erasmus”). Il problema è che nessuno di questi valori – ed ecco il primo equivoco – può bastare a fare da piattaforma per una forza politica con una sua proposta articolata, come dovrebbe ambire a diventare il centrosinistra: tant’è vero che nei Paesi più maturi dell’Italia essi sono ancora oggi comuni a quasi tutto l’arco politico, nonostante i successi dei partiti populisti. Ridurre la nuova narrazione al frame Europa sì/Europa no significherebbe appiattire il dibattito pubblico verso il basso.
Il secondo equivoco è legato al primo, ed è quello di pensare che una sola, vaga idea – “stiamo con l’Europa!” – per quanto benintenzionata, sia sufficiente per tenere insieme un intero schieramento politico, magari composto da persone che fino all’altro ieri stavano dall’altra parte (come ad esempio a un ipotetico manipolo di esuli da Forza Italia, magari guidato da Antonio Tajani). È lo stesso errore che più o meno le stesse persone – o chi era al loro posto – hanno commesso fra gli anni ’90 e Duemila, quando cercavano disperatamente un modo per fare opposizione ai governi (e soprattutto ai temi) imposti da Silvio Berlusconi. A quei tempi lo sgangherato lancione dell’opposizione caricò a bordo chiunque, da Nanni Moretti a Marco Travaglio passando per Italo Bocchino, scegliendo di chiudere un occhio sulle sensibilità e storie personali di ciascuno di loro: bastava il no a Berlusconi.
Uno scarto simile funzionò per combattere il fascismo, settant’anni fa, ma siamo d’accordo che siamo ancora ben lontani da quei momenti. Contro Berlusconi funzionò per un breve periodo di tempo (e forse più per demeriti e logoramento dell’avversario che per meriti propri): ma una volta esaurito il potere unificante del “no a Berlusconi”, nessuno aveva davvero in mente cosa fare. Tanto è vero che l’iniziativa di rifondare l’area progressista venne presa da una persona dichiaratamente estranea allo schema Berlusconi sì-Berlusconi no. Il rischio è che succeda di nuovo: non la rifondazione del centrosinistra, ma il “che facciamo?” di tutti i pro-europeisti di oggi, una volta che la spinta politica degli altri si sarà esaurita.
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