La prima volta che ho sentito parlare di Jaron Lanier stavo studiando la realtà virtuale e le sue possibili applicazioni al giornalismo. Mentre facevo ricerca ho trovato un video su YouTube, in cui un ragazzo biondo con i rasta corti presentava la sua startup, VPL, la prima azienda ad aver lavorato a un visore per la realtà virtuale, insieme a una tuta e a un paio di guanti con cui immergersi completamente in un nuovo spazio digitale. Erano i primi anni ’90, e Lanier insieme ai suoi collaboratori aveva già sviluppato tutti i dispositivi che 30 anni dopo avremmo visto sul mercato di massa (e che entro il 2025 avranno un valore di 80 miliardi di dollari). L’anno scorso Lanier ha scritto un memoir molto romantico sulla sua vita quasi monastica dedicata alla realtà virtuale, Dawn of the New Everything: Encounters with Reality and Virtual Reality, una Bhagavad Gita del VR in cui guida il lettore dal nulla all’illuminazione in quasi 400 pagine.
Oggi il padre della realtà virtuale (appellativo di cui non è affatto felice, per inciso) sostiene che continuando in questa direzione, usando i social network nel modo in cui li stiamo usando, ci estingueremo. Non diventeremo solo più stupidi, più soli, più apatici – come leggiamo da anni ovunque – ma scompariremo da questo pianeta. E, sostiene Lanier, il momento per poterci salvare è solo il presente. Dobbiamo iniziare ora a lavorare a una exit strategy che preveda al primo punto la cancellazione del nostro profilo Facebook. Il saggio si intitola Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, tradotto e pubblicato in Italia dal Saggiatore.
Oltre alla lettura, la parte più divertente dei libri di Lanier sono le presentazioni. Ne fa poche, durano parecchio e sono uno spettacolo spontaneo: a Brooklyn ha presentato il saggio al Pioneer Works, un edificio industriale di fine ’800 nel quartiere navale di Red Hook, diventato un centro culturale. Vestito come sempre di nero, con una maglia enorme – quasi una veste – e i rasta che nel frattempo sono cresciuti e gli arrivano ai piedi, ha spiegato con una voce sottilissima le sue intenzioni: “Facciamo qualcosa di diverso. Prima parlo un po’, poi smetto di parlare e suono, poi torno a parlare e suono di nuovo. Suono solo per qualche minuto, che altrimenti potrei continuare per ore. Alla fine di questo processo ci sarà un po’ di spazio per le domande. Va bene?”.
Sul palco ci sono tre musicisti – percussioni, contrabbasso e un viola – mentre a fianco dello sgabello su cui siede Lanier scorgo un pianoforte e diversi strumenti a fiato, un mix tra aggeggi primitivi e ipertecnologici che si costruisce da solo con rame, legno e altri materiali. “Internet deve essere rifondato, ma soprattutto devono essere rifondati i social network, il loro business model”. Lanier spiega che Facebook e gli altri social media sono stati pensati per renderci dipendenti ogni giorno di più, creando una ipnosi di massa. Di recente il New Yorker ha pubblicato un articolo (“The Deliberate Awfulness of Social Media“) che prende spunto dagli argomenti contenuti nel saggio di Lanier per spiegare come il mondo sgradevole, superficiale e pieno di opinioni sbagliate creato dai social network non sia un esperimento andato male ma una scelta deliberata, studiata alla perfezione.
Lanier, poco dopo aver appoggiato uno strano strumento formato da due tubi lunghissimi di rame, continua a descrivere il quadro: “Il modello su cui si basano Google e Facebook è nato dalla fusione di due mondi completamente diversi che oggi convivono: quello dei super imprenditori libertari e quello dei pionieri dell’internet aperta e libera, che erano molto più vicini a posizioni socialiste e anarchiche”. Questi due mondi così distanti si sono fusi attraverso il modello pubblicitario, pensato per dare all’utente l’idea che stia usando un servizio gratis, come se fosse stato creato dal free software movement, da GNU Project. Invece non è così: esiste un metodo sempre più raffinato che permette ai colossi tech di intascare i nostri dati per venderli alle aziende che poi fanno pubblicità.
Lanier non sostiene che è sempre stato così, ma che alla fine bisogna accettare un fatto: “Creepiness is the cheaper way”. Spesso costi minori coincidono con minori controlli e standard etici. Per questo manipolare è molto facile e redditizio: “Prendiamo le primavere arabe. Sono iniziate bene, con ottimi intenti, poi sono finite male e alle fine tutto quel fermento è diventato disordine e in parte ha dato spazio all’emergere dell’Isis, soprattutto online”, continua Lanier. Oggi i bad actor sono eserciti di troll e di hacker che ingolfano la rete di notizie false, non verificabili che confondono creando un rumore di fondo e l’idea che non esista la verità. Ma dopo una pausa Lanier aggiunge: “Abbiamo creato una società in cui tante persone dubitano del risultato delle elezioni. In cui molte persone non credono più nella verità. Questa è la formula di un suicidio di massa: e lo stiamo facendo ora”. Inoltre questo modello, aggiunge, ha portato all’elezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti.
Tutto questo pasticcio ovviamente ha un incipit. O almeno, sostiene l’autore statunitense, un padre inconscio: il comportamentismo. Nata agli inizi del ’900, questa dottrina sostiene che si possono cambiare i comportamenti degli animali attraverso la ripetizione di azioni collegandole a premi e punizioni: una caramella se è giusto, una scossa elettrica se non va bene. Lanier sostiene che questo modello sia la perfetta descrizione della nostra vita sui social media. “La mia idea, tuttavia, non è quella di portavi a odiare queste aziende. Ho molti amici a Facebook, sono parte di quel mondo, e non credo che la denigrazione sia la via giusta da seguire. Dobbiamo invece costringerli a cambiare”. Lui stesso, spiega, lavora per Microsoft.
Lanier è convinto che per affrontare questo percorso serva un abbecedario minimo, in cui spiegare la vera natura di questo sistema. Eccolo: le aziende che fanno pubblicità diventano i manipolatori; i colossi tech invece sono l’impero della modificazione del comportamento; l’engagement viene ridefinito come dipendenza. Con questo vocabolario, sostiene Lanier, possiamo fare più attenzione a quello che succede e capire le intenzioni dei social media: dare ai loro inserzionisti la possibilità di creare piccoli cambiamenti nelle abitudini e nei comportamenti dei loro utenti. “I cambiamenti sono minimi, si accumulano lentamente, si sommano e portano alla grande trasformazione. Pensiamo al cambiamento climatico: nessuno può dire che una sola tempesta è causata dai cambiamenti climatici, ma sommando tutto quello che succede alla Terra, la fotografia dall’alto ci riconduce a questo fenomeno”, sostiene Lanier.
Ma perché l’impero dei social network sta creando un mondo più triste, diviso, in cui la democrazia è in profonda crisi? Lanier ritorna alla psicologia per dire che le persone dipendenti sono molto più schiave dei sentimenti negativi che di quelli positivi. “Pensiamo a un giocatore d’azzardo o a un tossicodipendente. Ecco, i social media agiscono così: per darci un istante di felicità, ci fanno entrare in un lungo periodo di dolore e tensione, che è il vero carburante della dipendenza”. L’esempio di Twitter è perfetto: si spera in uno, due cento retweet e nel frattempo, tra un retweet e l’altro, si passano lunghi periodi di inazione, di attesa, di ansia, di controllo spesso morboso. Lo stesso succede con Instagram e Facebook.
C’è una soluzione per evitare di scomparire? Per Lanier i gruppi tech devono iniziare un processo di pulizia della rete dalla spazzatura che abbiamo accumulato negli ultimi decenni. E allo stesso tempo le aziende della Silicon Valley devono abbandonare il modello basato sulla pubblicità e adottare quello di Netflix, dove gli utenti diventano clienti. Poco tempo fa, parlando col sociologo belga naturalizzato canadese Derrick de Kerckhove, ho avuto una risposta molto simile: “Arriveremo a un sistema di pagamento dei social media e delle notizie. Pagheremo la qualità, come già facciamo in parte. Il vero problema è dare un diritto alle notizie a chi non può pagarle”.
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