Fitch Ratings ha alzato la valutazione di Fiat Chrysler Automobiles a ‘Bbb-‘ da ‘Bb’. L’outlook e’ stabile per “riflettere il continuo rafforzamento del profilo finanziario di Fca e l’aspettativa che questo miglioramento sia sostenibile nonostante un potenziale indebolimento ciclico delle vendite dei nuovi veicoli in alcuni mercati chiave dove Fca e’ attivo”. La promozione consola lo stato maggiore dl gruppo dopo l’accoglienza debole riservata dal mercato al piano presentato da Mike Manley e da Pietro Gorlier, neo-responsabile di Fca per l’area Emea.
Anche a Wall Street, dove ieri a fine giornata sono prevalse le vendite nonostante la presentazione a Los Angeles del Gladiator, il nuovo pick-up di Jeep che entrerà in produzione tra pochi mesi con l’obiettivo di rinverdire i successi del vecchio modello del 2005, un simbolo per i cultori dei super Suv.
La sensazione è che il gruppo stenti a ritrovare appeal, dopo la scomparsa di Sergio Marchionne, manager capace di richiamare costantemente l‘attenzione degli analisti, sfornando iniziative e progetti. E’ possibile che l’indiscrezione (rivelatasi falsa) su una trattativa di vendita per Comau, sia farina di qualche analista con la nostalgia per i blitz di super Sergio. Altri tempi. A risvegliare l’attenzione dell’opinione pubblica italiana non è stato sufficiente l’impegno del gruppo sull’Italia. Mica poca roba: il gruppo, come non era affatto scontato, ha deciso di puntare sul Belpaese come hub produttivo per vetture da destinare al mercato globale con le nuove motorizzazioni elettriche e ibride, investendo 5 miliardi per 13 modelli nuovi o rinnovati. Uno sforzo che dovrebbe permettere la saturazione degli impianti entro il 2021 con un passaggio impegnativo sul piano politico: la scelta di Mirafiori per la nuova linea produttiva della 500 elettrica e altri modelli. La 500 verrà alla luce nel primo trimestre del 2020. Iniziative che non hanno favorito un riavvicinamento con la Fiom, che non rinuncia al dividendo politico dell’ostilità contro il Lingotto.
E’ in questo clima che Fca si accinge ad affrontare giorni delicati in cui si sta ridisegnando il panorama dell’auto. Sta andando in frantumi, complici i guai giudiziari di Carlos Ghosn, l’alleanza Renault-Nissan, il caso più rilevante di alleanze industriali che avrebbero dovuto, secondo Marchionne, ridurre a non più di 5-6 i protagonisti del mercato globale. Sotto la spinta dei dazi di Donald Trump, al contrario, si assiste alla riedizione di assi regionali condizionati da scelte politiche e dei regolatori del settore. La novità complica i conti dei Big, come dimostra Gm: tra le ragioni del taglio dei siti produttivi in Nord America spicca il costo dei componenti importati dal colosso di Detroit a prezzo maggiorato. Ma la pressione dell’opinione pubblica, in Usa come in Europa ostile ai gruppi che hanno ricevuto aiuti di Stato, gioca contro l’industria. E lo stesso capita in Germania, ancora furente per il dieselgate.
Insomma, non si annunciano tempi non facili per il mondo delle quattro ruote, impegnato in forti investimenti che daranno frutti nel tempo, ma che oggi rappresentano soprattutto costi. E in questa cornice Fca si concentra sui paesi che hanno più possibilità di sfuggire all’ira di Trump sui dazi che minaccia l’Europa. E ciò forse spiega la scelta tricolore nella multinazionale italo-americana.
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