Un bambino che nasce in povertà in Cina avrebbe migliori prospettive di risalire l’ascensore sociale di un coetaneo statunitense. È una sveglia per l’America o un’esagerazione? Il domenicale del New York Times ha pubblicato due settimane fa un approfondimento sulla Cina, spiegando come il Partito Comunista – negli ultimi trent’anni sia riuscito a coniugare le caratteristiche del libero mercato con un vigoroso controllo statale dell’economia, dando più speranza ai giovani di quanto riesca oggi la patria del liberismo contemporaneo. L’accusa implicita è tremenda: mentre i millennial americani si sentono sempre più precari circa il loro futuro, quelli cinesi sono convinti che il loro Paese diventerà il più potente della Terra. In Cina, spiega il quotidiano, “ottocento milioni di persone sono uscite dalla povertà: circa due volte e mezza la popolazione degli Stati Uniti”.
Con una serie di grafici e statistiche davvero impressionanti, il Times mostra come la Cina, sebbene resti di gran lunga più povera degli Stati Uniti, abbia acquisito un vantaggio notevole “nel più intangibile ma importante degli indicatori economici: l’ottimismo”. Sarà anche inquietata dai fantasmi della Rivoluzione culturale e da uno Stato repressivo, scrive il quotidiano, ma il gigante asiatico consente ai suoi giovani di guardare al futuro con molta più serenita degli europei e degli americani (stando ai sondaggi) e l’espansione economica che li accompagna non ha eguali della storia moderna. I cinesi maschi nati nel 2013 hanno un’aspettativa di vita di sette anni più alta di quelli nati nel 1990, e le femmine di 10 anni. “Un tempo una grande parte dei poveri del mondo erano in Cina, adesso qui c’è gran parte della classe media mondiale”.
Certo, così come negli Stati Uniti, in Cina c’è un disperante divario tra i ricchi ei poveri, e 500 milioni di persone (il 4o%) vivono con meno di 5,50 dollari al giorno, secondo la Banca Mondiale. E il reddito medio in Cina si aggira attorno ai 12.000 dollari, contro i 53.000 dollari pro capite degli statunitensi. Ma non si può capire il passo tenuto dalla Cina se non si ricorda da dov’è partita: appena dieci anni fa, il reddito medio lì era di appena 3.500 dollari. In dieci anni, dunque, è più che triplicato. Se a questo poi aggiungiamo ciò che si apprende da altre fonti, che cioè il 70% dei cinesi tra i 19 e i 36 anni possiede una casa contro il 41% dei francesi e il 35% degli statunitensi di pari età; che il 91% dei cinesi pianifica di comprare casa entro cinque anni, allora si può capire il senso del titolo dell’inchiesta del Times: Il sogno americano è vivo e vegeto. In Cina.
Un osservatore superficiale potrebbe giungere alla conclusione che i cinesi, pure negli anni di massima crisi postmaoista, non hanno mai rinunciato a cercare ricette di politica economica originali, diffidando dal mainstream occidentale e, soprattutto dai presunti dogmi del Washington Consensus. In effetti Deng, così come tutti i suoi successori, Xi compreso, ha sostenuto, finanziato e fatto studiare almeno tre generazioni di economisti “con caratteristiche cinesi”. Nel 2012, il segretario generale del Partito comunista cinese inaugurava per l’appunto il “sogno cinese”, il Zhōngguó Mèng, un termine popolarizzato dalla stampa del governo per sottolineare il nuovo ethos di crescita collettiva. Le basi? Un miracoloso mix di socialismo, individualismo e patriottismo. Lo slogan era stato ispirato, pare, da un editoriale del celebre giornalista Thomas Friedman, che aveva spiegato come la Cina avesse bisogno del “suo sogno”, combinando ricerca di prosperità a un modello di sviluppo più sostenibile.
Lo stesso osservatore finirebbe col fare inevitabilmente un confronto impietoso: non tanto con il rivale economico numero uno della Cina – gli Stati Uniti – quanto con l’Unione Europea, che nello stesso arco di tempo si è arrovigliata su Fiscal compact, bilanci comunitari, la regola del 3%, e le cose di cui parliamo fino allo sfinimento in questi giorni. Mentre la Cina sta incarnando l’Età dell’oro che l’Occidente ha vissuto fino a mezzo secolo prima, e investe in settori strategici per togliere il primato all’America di Trump, noi pensiamo ai bilanci pubblici in deficit. Dove abbiamo sbagliato?
Innanzitutto, nel racconto cinese, alcuni conti non tornano. L’indice di concentrazione per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza in Cina è sbagliato. Il numero di Gini usato dal NY Times in una delle sue infografiche, che renderebbe il Paese asiatico di poco più polarizzato degli Stati Uniti, risale agli anni Ottanta, ed è stato messo a confronto erroneamente con l’indice americano odierno. Secondo tutti gli esperti di economia del resto la diseguaglianza in Cina è davvero leggendaria: chi ha scritto la storia sembra non essersene accorto.
Ma più in generale, manca dalla panoramica del racconto una visione di insieme sulle implicazioni sociali e politiche di questo miracolo economico. È di poco tempo fa la notizia che il progetto cinese di valutare ognuno dei suoi 1,3 miliardi di cittadini in base al comportamento in società sta diventando sempre più reale, con Pechino impegnata, entro il 2021, ad adottare un programma di punteggi personalizzati a vita natural durante per ogni cittadino. Da qualunque lato lo si guardi, il sogno americano non prevedeva certo di vivere in un regime capitalista governato da un partito unico autoritario con caratteristiche orwelliane.
Secondo Branko Milanovic. uno dei più noti e autorevoli esperti internazionali sul tema delle disuguaglianze economiche, quello che osserviamo in Cina è un modello di capitalismo estramemente diverso da quello americano, ma anche un modello di comunismo estremamente diverso da quello teorizzato da Marx. Milanovic lo definisce “comunismo hayekiano”, vale a dire una forma di controllo statale dei mezzi di produzione ispirata da – questo il paradosso – Friedrich Von Hayek, economista e celebre critico dell’intervento statale in economia. Hayek era un esegeta dell’individualismo sfrenato, e questo è ciò che vediamo svilupparsi nella Cina odierna. Ma Hayek, spiega Milanovic, non avrebbe previsto che i formidabili risultati individuali dei cinesi sarebbero stati raggiunti sotto la guida di un partito unico, il PCC.
Milanovic scrive che la crescita economica e la celebrazione della ricchezza nazionale – sotto forma anche di opere pubbliche, ferrovie, aeroporti, case popolari, scuole che funzionano, autostrade nuove di zecca – sono nozioni familiari sia all’Unione Sovietica che alle società capitaliste del Secondo Dopoguerra: nelle sue memorie, Confesso di aver vissuto, il poeta marxista Pablo Neruda trasudava entusiasmo per la costruzione di immense dighe da parte dell’URSS, in un modo non dissimile da quello degli imprenditori occidentali. La differenza è che, nell’ideologia capitalista hayekiana, è il successo individuale a muovere la società in avanti; nel comunismo, il successo dovrebbe essere “socializzato”, reso disponibile per l’intera comunità, trasformato in bene comune.
“Così non è stato”, scrive l’economista di origine serba. “Gli sforzi collettivi hanno funzionato per un decennio o due, poi la crescita è tracimata… il cinismo ha regnato supremo”. La Cina si è così trasformata sulla base di una combinazione ben precisa: il potere del partito unico è rimasto immutato, ma agli individui che abbracciavano l’impresa è stata data libertà quasi totale, ed encomio sociale: “I capitalisti avrebbero provveduto al motore e al carburante; il partito avrebbe tenuto il volante”. I cinesi si sono arricchiti, e hanno arricchito altri cinesi, in un processo molto simile a quello di due o tre secoli di storia americana. Ma davvero la Cina di oggi è un modello riuscito di capitalismo in salute che si mescola con uno stato sociale generoso?
Anche chi apprezza i progressi compiuti dall’economia cinese riconosce che l’invecchiamento della popolazione potrebbe diventare un problema drammatico quando i ritmi di crescita non saranno più quelli attuali. E a causa della celeberrima politica del figlio unico, ci potrebbero essere 30 milioni di uomini in più in cerca di un partner rispetto alle donne entro il 2020. E come fanno i cinesi a permettersi di comprare casa, se Forbes scrive che i prezzi dell’immobiliare nelle grandi città stanno salendo alle stelle? Beh, a Shangai ci sono testimonianze di coppie che simulano divorzi per ottenere mutui vantaggiosi. Un’altra storia, non si sa quanto realistica, racconta di studenti che inviano selfie di nudo in cambio di prestiti.
Un paragone da fare con l’Età dell’oro occidentale è il ritorno di due sfere d’influenza contrapposte, per il momento principalmente commerciali, che potrebbero dividere il mondo in due colossali catene di produzione: una con al centro la Cina, l’altra gli Stati Uniti, e ciascuna superpotenza cercherà con barriere legali e politiche di impedire all’altra di operare nel proprio territorio, o quantomeno di rendergli la vita sempre più difficile. Se il campo di battaglia del futuro è la tecnologia – con tutte le sue implicazioni, dall’Intelligenza Artificiale alla robotica, al computing quantistico, alla green energy, alle macchine che si guidano da sole – c’è anche il settore militare che non resterà indifferente, grazie alle ricadute potenzialmente rivoluzionarie di migliaia di migliaia di dollari investiti nell’innovazione. Secondo Janice Gross Stein, professore di Scienze politiche all’University of Toronto, la Cina ha come obiettivo primario quello di edificare il proprio trono di superpotenza e preservare un sistema politico chiuso; quello degli Stati Uniti è di difendere la posizione di dominio globale di cui gode dalla Seconda guerra mondiale a oggi. Nessun sogno di “nuova frontiera” di stampo kennediano, o idealistico (i diritti umani), in questo frangente storico: solo difesa dell’esistente, dei mercati, degli interessi finanziari.
Alberto Forchielli, economista ed impreditore che ha lavorato per molti anni in Asia e fa da consulente per aziende italiane e fondi d’investimento in Cina (lo abbiamo intervistato a proposito della guerra dei dazi) ha una visione a dir poco pessimistica sull’ipotesi di ricadere nella sfera d’influenza cinese. “Il problema è che i cinesi sono repressi e nazionalisti”, ha detto senza mezzi termini in tv, parlando dello scandalo provocato da uno spot sessista di Dolce&Gabbana due settimane fa. “E scaricano questa repressione sugli stranieri… questo è il grande problema dell’Occidente con la Cina: il trattamento delle imprese straniere. E aggiungo che questo è solo l’antipasto, vedrete come sarà carino il mondo cinese. Sarà un mondo molto repressivo, antipatico e violento; imporranno questa loro forza economica e la tradurranno in potere politico. Sarà un brutto mondo. Rimpiangeremo la pax americana”.
Il guaio è che con la crisi finanziaria del 2008 si è acutizzata la crisi d’identità delle fragili democrazia liberali, un sistema che durante gli anni del declino sovietico sembrava in grado di superare ogni ostacolo senza fatica, con una forte legittimazione nel corpo elettorale. Ma negli ultimi dieci anni, con una forte precipitazione tra il 2016 e il 2018, la politica occidentale è entrata nell’epoca della sfiducia. Gli aspetti peculiari della governance cinese che potremmo finire con l’importare in Occidente sono dunque altri. Da un sondaggio di SurveyMonkey emerge che il 57% degli americani adulti ritiene che i colossi dei social network come Twitter o Facebook stanno danneggiando la democrazia e la libertà d’espressione. Il 55% vorrebbe che ci fosse una maggiore regolamentazione da parte dei governi. La società occidentale è stata costruita su false promesse raggiungibili da sempre meno persone: questo rappresenta, di per sé una bomba a orologeria. Potrebbe pure essere che il “sogno americano” di ritorno dalla Cina avrà le fattezze di un maggiore autoritarismo mescolato a meritocrazia.
E non abbiamo nemmeno parlato, come si può notare, dei costi altissimi dell’arrembaggio cinese in termini di rispetto dell’ambiente, dei diritti delle minoranze, del rispetto di chi vive in territori minacciati dalle industrie, dai megaprogetti, dalle autostrade e dai bacini idroelettrici. La Cina sta bruciando in pochi decenni tappe percorse dall’Occidente nell’arco di due secoli. Forse ciò che più avrebbe apprezzato, del sogno americano in Cina, un anticomunista come Hayek, sarebbe stata la notizia della soppressione di un dipartimento di studi marxisti all’Università di Pechino, perchè sosteneva dei lavoratori in sciopero nella Zona economica speciale di Shenzhen. Nell’epoca d’oro dell’American Dream andava sì forte l’inquisizione maccartista, ma anche i sindacati, le prime forme di difesa organizzata dell’ambiente e le organizzazioni per i diritti civili non scherzavano. In questo senso è vero che la Cina incarna un sogno americano, ma concentrato in così poco tempo, accelerato in un modo così schizoide e spietato da risultare un mezzo incubo.
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