pirlo e del piero si abbracciano
Strategia

La leadership secondo Del Piero, Pirlo, Albertini e Mogol

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Andrea Pirlo e Alex Del Piero al termine di un amichevole tra la Juventus e una selezione di stelle della Serie A italiana.

Cos’è un leader? Se ve lo chiedessero, così su due piedi probabilmente direste: una persona che guida gli altri ed è capace di condurre una squadra al raggiungimento di determinati obiettivi. E che nel farlo ha sia destrezza nel motivare le persone ad avere chiari gli obiettivi da raggiungere.

Definizione ovviamente corretta, ma la leadership è molto di più. Prevede senso di responsabilità, certamente, ma si basa pure sulla fiducia, non solo quella che un leader sa accordare ma anche quella che gli altri gli danno, sa prendere decisioni in modo automatico e soprattutto sa che in ognuno di noi c’è un talento che deve essere coltivato. E questo vale in qualsiasi settore si operi, dal mondo del calcio e dello sport in generale, ma anche nella musica, così come in qualsiasi azienda.

A raccontarlo, durante il Leadership Forum (evento organizzato dalla Performance Strategies di Marcello Mancini) tenutosi a Milano nel novembre scorso, sono stati campioni come Demetrio Albertini, Andrea Pirlo, Alessandro Del Piero e il paroliere Mogol così come Stephen M.R. Covey, venuto apposta dagli Usa per ricordare che la fiducia è un driver economico. Vediamo quali sono le caratteristiche che un leader deve avere oggi.

Il leader secondo Pirlo, Albertini e del Piero tra senso di responsabilità e stimoli continui

“Il leader è come il centrocampista”, spiega Demetrio Albertini, oggi alla guida dell’agenzia  Dema4 insieme a Manuela Ronchi. “Colui che quando è in campo deve avere una visione a 360 gradi, essere sicuro di avere qualcosa da difendere alle spalle e allo stesso tempo avere una strategia che gli permetta di decidere in pochi secondi cosa fare. Non si può fermare alla difesa ma deve provare a vincere la partita”. A differenza di quello che si crede, non è sempre protagonista, ma  capisce le capacità dei suoi compagni e cerca di valorizzarle”.

Ma, così come nella vita, anche nel calcio non c’è un leader senza follower. Per Andrea Pirlo, però, non basta pensare di avere chissà quali caratteristiche tecniche per potersi erigere a leader: “Non è colui che decide di esserlo, è la gente che gli sta intorno che lo ‘elegge’ in base a comportamenti, atteggiamenti che lo rendono tale e che fanno sì, di conseguenza, che gli altri gli vadano dietro”. Senza follower un leader non sarebbe nulla: “E’ quello che riesce a trasmettere e quanto riesce a trasmetterlo che fa sì che abbia gente che lo segue”, aggiunge Del Piero. E in tutto questo, ovviamente, è molto forte il senso di responsabilità: “Un leader viene investito all’interno di un percorso di gruppo e il senso di responsabilità è forse la dote più importante che deve avere”, chiosa Albertini.

Responsabilità che però non deve fare a pugni con il suo modo di essere. Dimostrazione di questo è Pirlo, che ha cambiato maglia per giocare nelle 3 squadre più importanti del nostro calcio. Se di primo acchito, questa può sembrare una scelta non da leader, il centrocampista dà invece una motivazione che parte dal profondo: “Dipende tutto da quello che vuoi essere e diventare, quando senti che dentro di te non c’è più lo stimolo per un certo contesto, è normale cambiare. Io ho fatto così per cercare di avere una competizione sempre più alta, per avere il massimo dell’adrenalina”.

E la competizione è un aspetto importante nel calcio così come del percorso professionale: “Insieme alla soddisfazione. La prima ti permette di valutare il tuo percorso, che è l’allenamento e capire se stai lavorando nel mondo giusto”, aggiunge Albertini “mentre per la seconda lo sport insegna che puoi essere soddisfatto anche in una sconfitta perché sei cresciuto, personalmente e di gruppo”.

E questo senza coltivare “la cultura dell’alibi”. “A mio avviso”, aggiunge il giocatore, “ l’alibi è l’anticamera di una sconfitta e non appartiene al leader perché questo è colui che riesce a trasferire una critica ai compagni che viene recepita in maniera costruttiva. Motiva così le persone e l’alibi viene messo da parte”. Un lavoro, quello del leader, che viene fatto ogni giorno. “Deve cercare di migliorarsi di continuo e sa che c’è da colmare con energia tutti piccoli problemi che ci sono ogni giorno”, chiosa Del Pietro.

Mogol: comunicare in poche parole e creare degli automatismi che nascono dall’esperienza

Del Piero e Mogol, sebbene distanti fisicamente (il campione vive a Los Angeles) e di età, sono d’accordo sulla definizione di talento: “Nasce in ogni uomo, subito, non appena viene al mondo anche se è latente”, spiega il paroliere. “Bisogna coltivarlo perché in un certo senso diventi una forma di automatismo. Un leader si riconosce dalla capacità di prendere decisioni in poco tempo e questa capacità è legata alla competenza. Pertanto bisogna allenarsi affinché di fronte a un problema, tutte le volte che si parla si abbia una risposta in breve tempo. Se ci pensate, l’automatismo non è altro che il poter agire grazie al cervello che ha accumulato una serie di esperienze e ti soccorre indipendentemente dal ragionamento. La capacità di essere automatici dipende dal numero di ore che hai impiegato per far sì che il cervello assorbisse l’automatismo. È la stessa cosa quando scriviamo sotto dettatura: riusciamo a farlo senza pensare alle lettere e lo facciamo dai tempi degli antichi Romani”.

Secondo Mogol, poi, tutti siamo in grado di apprendere tutto: “Le persone hanno una capacità inimmaginabile di crescita anche quando pensano di non poterlo fare: bisogna perseguirla con passione, costanza e didattica”.

Cosa che fa e fa fare il leader, che non deve essere una persona che usa tante parole “e così facendo confonde le idee. Ma è chi riesce a essere essenziale e questo è possibile solo se si conosce cosa si vuole comunicare. La sintesi deve essere guidata dalla competenza. Quello che conta è comunicare e trasmettere con poche parole le emozioni. Un tenore”, spiega Mogol “quando arriva a una certa tonalità dimostra quanto è bravo, ma spesso chi lo ascolta non capisce più cosa sta dicendo, mentre se uno diminuisce l’intensità, con l’obiettivo di comunicare, riesce a farlo molto di più. L’effetto è il surrogato dell’arte, ma non è arte. Stupire non è emozionare e non vale neanche l’idea che siamo tutti convinti di vivere vite diverse. In fin dei conti siamo tutti professionisti della vita e viviamo le stesse emozioni”.

Stephen M.R. Covey: la fiducia è una skill e va allenata

E quanto conta la fiducia in un leader e verso un leader? Secondo Stephen M.R. Covey, coach e autore bestseller, è un vero e proprio driver economico che permette di ampliare i propri target e superare i propri obiettivi e soprattutto “è la prima componente della leadership e come tale è una skill, o meglio una soft skill che può essere imparata, allenata”.

Non una “virtù sociale”, ma qualcosa che attiva collaborazioni e partnership, permette di usare a proprio vantaggio le differenze, spinge a correre rischi, promuove la cultura dell’apprendimento e genera anche velocità. “Aiuta a reclutare i migliori candidati perché le persone che si fidano vogliono appartenere a un contesto e questo permette di ovviare al turnover, di risolvere le lamentele del cliente, di superare la demotivazione, di diminuire la burocrazia, tutti segnali di mancanza di fiducia”.

Integrità, intento, capacità e risultati: i 4 cardini della credibilità

Fin qui tutto chiaro, ma come si costruisce un team a elevata fiducia?  Secondo M.R. Covey, il primo dei 4 cardini della credibilità è l’integrità. “Vuol dire congruenza, significa che fai quello che dici e predichi, in ogni caso”. Come ha fatto il campione di tennis Roddick durante gli ottavi di Roma nel 2005 contro il giocatore spagnolo Verdasco. Partita che avrebbe vinto Roddick perché il giudice di linea ritenne fuori una palla lanciata in servizio dal tennista spagnolo. Roddick, invece, fece notare che la palla aveva toccato la riga e indusse l’arbitro ad assegnare il punto all’avversario, facendo così, di fatto, riprendere la partita che alla fine lui perse. Un gesto apparentemente insignificante ma che secondo M.R. Covey, è la dimostrazione di chi fa ciò che è giusto fare e come tale viene ricordato dagli altri, anche successivamente, generando così fiducia.

“Conta poi l’intento: un leader deve dichiararlo, deve comunicare al suo team perché fa una cosa e i comportamenti che ne conseguono. Fare questo vuol dire sviluppare fiducia e far presumere un intento positivo, oltre a far cercare agli altri il reciproco beneficio e mostrare che si sta agendo nell’interesse di tutti”.

La manifestazione d’intento genera partecipazione e coinvolgimento. Così come è altrettanto importante sapere costruire le proprie capacità: “I nostri risultati sono importanti per costruire la fiducia perché questi sono legati a talenti, competenze e stile. Se è vero che non ci sarà mai fiducia senza integrità, è anche vero che è difficile fidarsi di qualcuno che non porta risultati, che è poi il quarto cardine della credibilità. Ricordate”, conclude Mc Covey “che le persone valutano le performance in base a 3 indicatori chiave: performance passate, attuali e attese”.

E in tutto questo torna ancora la parola responsabilità assieme alla lealtà. “Cercare di coprire l’errore ci porta a pagare il doppio. Anche perché nel mondo di oggi emerge tutto. Un leader ripara l’errore quando sbaglia e si assume la responsabilità di averlo commesso. Così crea trasparenza, genera fiducia e la ispira. Il manager si trasforma in un leader quando, con i suoi comportamenti estende la fiducia a un’altra persona”.

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