la facciata del nyse
Cultura

Il capitalismo non funziona più? Parla l’economista della “curva dell’elefante”

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La facciata del New York Stock Exchange di New York (GettyImages)

La vittoria di Trump. La Brexit. Il 60 per cento dei consensi al governo gialloverde in Italia. Più recentemente, i gilet gialli. Pur con tutte le peculiarità nazionali di cui tener conto, il perché di questi eventi epocali che stanno segnando la politica occidentale sarebbe inscritto nello stesso disegno. A forma di elefante. L’ha ribattezzato così la stampa mondiale: the elephant chart, dopo aver ripreso nel 2012 un grafico formidabile realizzato dell’economista serbo Branko Milanovic, dopo anni di ricerche negli archivi economici di mezzo mondo.

Il grafico dell’elefante cercava di rispondere a una domanda in fondo piuttosto semplice: chi ha beneficiato della globalizzazione nei decenni che vanno dal 1988 al 2008? Chi sono i vincitori e chi i perdenti? Tracciando l’andamento dei redditi corrispondenti a ogni singolo decile di reddito di tutta la popolazione mondiale nel ventennio di riferimento, questo lavoro colossale mostrerebbe come i paesi più poveri sono rimasti poveri, la classe media dei paesi in via di sviluppo sia cresciuta enormemente e le élite più ricche siano diventate pazzescamente più ricche. Tre questi ultimi due segmenti ci sarebbe – secondo l’interpretazione prevalente del grafico – la classe media occidentale, i cui redditi hanno stagnato a sufficienza per favorire l’esplosione dei populismi e del risentimento xenofobo.

Il paradosso della disuguaglianza

Uso il condizionale perché il grafico è stato integrato e corretto da letture successive, che ne hanno raddrizzato l’analisi politica (secondo alcuni, giocano una parte fondamentale il “ventennio perduto” del Giappone e i paesi socialisti più che l’impoverimento della classe media in America o in Inghilterra). Eppure il trend evidenziato da Milanovic dimostra indubbiamente come la borghesia occidentale abbia subito un declassamento economico di tutto rispetto, che ne ha tarpato le ali della mobilità sociale, mentre l’1% dei più ricchi continuava a prosperare. In altre parole, il capitalismo ha permesso a milioni di persone di emergere dalla povertà, ma si è dimostrato un sistema altamente imperfetto ed instabile per il suo ceto culturalmente più rappresentativo.

“Ma non lo vediamo solo dai numeri”, mi spiega Milanovic al telefono, da Washington, in uno dei rari momenti in cui non è su un aereo per dirigersi a qualche conferenza sulle disuguaglianze. “Le percezioni sono importanti. La globalizzazione è avvenuta in parte ai danni delle classi basse e medie occidentali, a vantaggio di quelle basse e medie dei paesi emergenti. Questo è successo per diversi fattori, e abbiamo soltanto l’imbarazzo della scelta: le delocalizzazioni, le migrazioni all’interno dei vari paesi, accordi commerciali fin troppo convenienti per i paesi esportatori. Fatto sta che il reddito reale della borghesia ne ha risentito.”

Questo non vuol dire che la politica occidentale sia restata a guardare tutti questi anni, dice Milanovic: ci ha provato davvero a rallentarlo, questo “vento della globalizzazione”, ma ha fallito. Negli Stati Uniti le politiche sociali sono rimaste settate fino alla fine degli anni Novanta su livelli di disuguaglianza molto minori, e su forze esterne (mercati finanziari) molto meno potenti. Stessa storia in Europa, dove i benefit del welfare sono sì aumentati durante la Terza Via, ma controbilanciati da riforme precarizzanti del lavoro che non hanno sortito gli effetti sperati ovunque. “Certo, quando i paesi più ricchi sono stati investiti dalla medesima ondata di mondializzazione e di cambiamento tecnologico, si sono dimostrati palesemente inadeguati nel controllarla. Ma sarebbe sbagliato credere che la politica sia stata assente, o non abbia cercato di affrontare il problema”.

Ora viviamo un paradosso, spiega l’economista, citando un suo articolo recente che è girato molto in Rete, che affronta l’importanza della lotta alle disuguaglianze: mentre complessivamente le disparità fra tutti paesi del mondo diminuiscono, e sempre più poveri in termini assoluti non sono più poveri, all’interno dei singoli paesi le disparità aumentano. Da un lato, dunque, in Francia le proteste segnalano una perdita del potere d’acquisto vissuta sempre più drammaticamente. Dall’altro, “Se usiamo il famoso indicatore che è il coefficiente di Gini, la disuguaglianza di tutti gli stati-nazione è passata dai 70 punti della metà degli anni Ottanta ai 65 punti di oggi, che è ancora tantissimo, sia chiaro”, dice Milanovic. Ma persino l’immensamente ricco “1%” ha visto la sua quota di reddito mondiale diminuire, dopo l’ultima recessione mondiale, passando dal 22 per cento del 2008 al 20,4 per cento del 2013. Semplificando, vuol dire che i lavoratori e le classi medie delle economie emergenti stanno continuando a far bene, mentre quelli dei paesi ricchi non tanto. Queste tendenze divergenti rappresentano un conflitto di interessi sempre più esplosivo.

Il populismo non ci farà tornare indietro

Ecco come arriviamo all’attualità: il “disallineamento” che sta penalizzando i tradizionali partiti cristiano-conservatori e socialdemocratici in Europa, il triste epilogo della Terza Via e, ovviamente, l’insorgere di movimenti e partiti populisti, che sembrano addensare un certo grado di rifiuto della globalizzazione a un vecchio modello di anti-progressismo. “La risposta istintiva che offrono è quella di farla finita con l’integrazione dei mercati e dei popoli, perché appare come la radice del problema”. È una risposta soddisfacente? “Credo proprio di no. Non sarà facile tornare indietro. Anche se in modo diseguale, la globalizzazione ha comunque distribuito ricchezza, e permesso la specializzazione di certi paesi in settori dove potevano essere più efficienti”.

Dunque no, spiega Milanovic, “Non credo che i nazional-populisti abbiano le risposte adeguate. E se pure le avessero, richiederebbero una rottura così grande, così radicale dagli organismi internazionali e del commercio mondiale, da scatenare reazioni imprevedibili e potenzialmente disastrose”. Anche un paese potentissimo come gli Stati Uniti diventa ‘piccolo’ quando si mette contro il resto del mondo. “Cosa ben diversa era negli anni Cinquanta, quando il prodotto interno lordo americano valeva il 40 per cento di quello mondiale. Adesso è il 16 per cento. Le risposte non le avranno i singoli governi, mi dispiace. E dunque le promesse di rinascita non verranno mantenute. E il malessere continuerà. Dove andremo a finire? Questo non so dirlo”.

Il capitalismo solo e infelice

Gli chiedo di cosa parlerà il suo prossimo, attesissimo libro: Capitalism, Alone, la cui uscita per l’estate di quest’anno. “Parto da un dato di fatto: il capitalismo regna sovrano ormai da un quarto di secolo. Tutti gli altri modelli sono stati sconfitti, e questa è una cosa mai vista nella storia dell’umanità. Il capitalismo è sempre più solo, ma è sempre più diviso in due modelli alternativi, organizzati in modo diverso: il primo – seguendo la tradizione di Rawls – lo definisco liberal-meritocratico, basato sulla libertà d’impresa e l’alternanza dei partiti al governo. Il secondo è il capitalismo politico: il modello cinese, per capirci. Ma potremmo dire anche dell’Etiopia, dell’Indonesia, del Vietnam, dell’Angola. Dove c’è un solo partito che governa lo sviluppo e la redistribuzione. Cioè i problemi che attanagliano l’Occidente”.

Potrebbe l’Occidente riscoprire il sogno del socialismo originario, o una sua versione aggiornata, per arginare il suo declino? Gli faccio notare che in Europa, le politiche proposte dall’attuale segretario del Labour inglese, Jeremy Corbyn, sono incredibilmente popolari, soprattutto quando parlano di nazionalizzare le ferrovie, difendere la sanità pubblica, tassare le multinazionali o ridurre i salari dei manager più ricchi. “Beh, il capitalismo è una cosa piuttosto semplice da definire. Il socialismo, mica tanto”, dice Milanovic, che ha vissuto in Jugoslavia durante gli anni d’oro del regime titino. “Se parliamo del socialismo reale di tipo sovietico, con la collettivizzazione dei mezzi di produzione e tutto il resto, ovviamente parliamo di un modello che non tornerà mai più. E però, anche se parlassimo di un tipo di socialismo democratico di tipo keynesiano, come negli anni Cinquanta o Sessanta, ahimè direi che anche quel modello lì non è più proponibile”.

Le socialdemocrazie di una volta non torneranno

Secondo Branko Milanovic, comunque vada a finire col nazional-populismo, la socialdemocrazia nella forma in cui la conoscevamo “nell’età dell’oro” di cui parlava lo storico Eric Hobsbawm non tornerà. Per quattro motivi: “Perché era stata creata per società etnicamente e culturalmente omogenee, perché non c’è più il fordismo, e le mansioni della forza lavoro e i sindacati sono dispersi; per l’invecchiamento progressivo della popolazione, che rende difficile finanziare il vecchio modello di welfare senza un ricambio generazionale, e perché il capitale oggi è molto più mobile, e se tassato pesantemente rischia di scappar via.

È possibile che ciò che ci resta, allora, sia proprio il modello di capitalismo politico di Pechino? Lui, in un articolo formidabile, l’ha definito “comunismo hayekiano”, perché si basa su un forte dirigismo e al tempo stesso sulla sollecitazione delle forme più brutali di egoismo. Un modello però caratterizzato anche da una democrazia ridotta all’osso e da diritti civili striminziti. “Sì, indubbiamente è un modello che potrà esercitare un certo fascino sull’Europa e in Occidente, o almeno in quella parte che sta crescendo poco, o con alta disoccupazione. Pensa al modo in cui i cinesi hanno risolto il problema degli investimenti in infrastrutture: lì il problema dei vincoli ambientali e archeologici, del vicinato, della proprietà privata è molto meno sentito dalle autorità. Ci sono, però, altri tipi di problemi”.

Quali? “La borghesia che è ormai diventata molto influente non conosce il rule of law di tipo anglosassone, o diritti individuali che pure sente come importanti. Le élite del capitalismo politico sono spesso corrotte, violente, arroganti. E così la classe media cinese talvolta guarda al modello liberal-meritocratico con favore”. Potrebbe esserci dunque una certa competizione tra i due modelli di capitalismo che sono sopravvissuti: gli occidentali potrebbero imitare l’autoritarismo cinese per favorire la redistribuzione, e viceversa i cinesi potrebbero guardare a occidente per superare i limiti del governo con un partito unico.

Paesi dell’Est: democrazie di convenienza

Parliamo anche della situazione nell’Europa centrale e dell’Est, dove si sta rafforzando sempre di più un modello peculiare di modernità: così come gli incel – la comunità di “celibi involontari” emersa dai forum internettiani più misogini – vogliono i benefici della liberalizzazione sessuale senza la responsabilità e gli oneri che ne conseguono, così sembra che le nazioni un tempo appartenenti al Patto di Varsavia vogliano la liberalizzazione economica senza le implicazioni sociali. Vogliono lo Starbucks ma non il matrimonio gay; la mobilità sociale ma non gli immigrati. “Se ne rimaniamo sorpresi è per un equivoco storico che continua a confondere molti”, dice Milanovic.

“Le rivoluzioni del 1989 si basavano sul principio della democrazia e della sovranità nazionale, ma erano di fatto il proseguimento di una lotta per l’indipendenza che covava da almeno duecento anni. Allora anche i nazionalisti più fanatici hanno parlato la lingua della democrazia, per avere più credibilità internazionale, quando spesso il loro obiettivo era la mera creazione di stati etnici. Una democrazia della convenienza, insomma, non una democrazia per scelta. Per questo l’accettazione di nuovi immigrati è impensabile: perché tradirebbe quegli ideali nazionalisti e di purezza etnica che hanno portato allo smantellamento dell’Urss”. Così arriviamo agli Orban, ai Kaczynski, agli Zeman e ad altri. “Le élite occidentali hanno fatto finta di non capire quel contesto”.

Nulla funziona?

Si potrà trovare equilibrio in questa tensione? Il risultato è che ci ritroviamo a pensare, come lo storico conservatore Niall Ferguson, che in Occidente nulla possa funzionare: non il populismo né il centrismo. Perché i dati demografici sono terribili, nessuno ha la forza politica di togliere i soldi ai poveri pensionati, Dal mercato obbligazionario non si può prendere più in prestito, la forza lavoro immigrata è politicamente impopolare, anche quando viene dai paesi dell’est, e di “pericoli esterni”credibili, come al tempo della Guerra Fredda, che costringano cioè la popolazione ad accettare restrizioni di libertà, non ce ne sono davvero: la gente comune non è più di tanto spaventata da Kim Jong-un o da Vladimir Putin. E tanto meno da Xi Jinping, che anzi, per come vanno le cose in Cina, rischia di diventare un esempio carismatico.

“Non credo – dice Milanovic – che capovolgere la globalizzazione, imporre dazi ovunque, vietare l’outsourcing e chiudere le frontiere potrà aiutare i lavoratori dei paesi ricchi in modo sostanziale, far star meglio il ceto medio europeo e rimettere le cose al loro posto. Solo una combinazione di vecchie politiche redistributive, che compensino coloro che hanno perso il lavoro, e politiche educative che migliorino la qualità dell’istruzione pubblica, aiutando i lavoratori a stare al passo con la domanda, potrebbe sortire qualche effetto”.

Anche sulla questione migratoria l’approccio di Milanovic è pragmatico: “Nè il modello di Fortezza Europa né quello open borders può funzionare. Io ho proposto invece un modello di ‘migrazioni circolari’ in cui la cittadinanza venga suddivisa in diverse tipologie; in cui vengono accettati alcuni lavoratori specializzati per un certo periodo di tempo, e altri meno specializzati, o da specifici paesi, per un periodo di tempo limitato. Non è un modello perfetto e ha i suoi limiti. Ma bisogna bilanciare l’importanza economica degli immigrazione, l’umanitarismo e la necessità di preservare determinate norme culturali”. Morale: o lavoriamo con gli strumenti che abbiamo per trovare una nuova terza via, o lavoriamo sull’autoritarismo. Tutto il resto è menare il can per l’aia.

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