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De Bortoli: “Diamo nuova linfa al terzo settore”

Ferruccio De Bortoli, ex direttore di Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore. (Imagoeconomica)


Articolo tratto dal numero di gennaio 2019 di Forbes Italia. 

“Si parla molto del reddito di cittadinanza. Ma sarebbe il caso di dedicare almeno altrettanta attenzione al senso di cittadinanza che tiene assieme la nostra società”. Mica in contrapposizione, precisa Ferruccio de Bortoli, “ma perché credo che sia ampiamente sottovalutata l’importanza rappresentata dal capitale sociale della solidarietà presente nella realtà italiana: c’è tanta gente che vuole fare del bene ma non vuole che si sappia, così come è molto forte l’impulso a prestare aiuto nello spirito della carità senza attendere passivamente l’intervento dello Stato”.

L’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 ore parla con cognizione di causa. Da quasi quattro anni de Bortoli, già da tempo nel consiglio di amministrazione, presiede l’associazione Vidas, la onlus creata nel 1982 da Giovanna Cavazzoni per prestare assistenza ai malati terminali. Una vera e propria impresa votata al bene, rispettando standard qualitativi d’eccellenza, ma nel rispetto dei vincoli di un bilancio che si aggira sui dieci milioni di euro, quanti ne servono per assistere in 12 mesi 1.600 malati terminali (180 ogni giorno dell’anno per ogni ora del giorno) grazie al lavoro di sei équipe sociosanitarie supportate da 140 volontari, attivi sia a domicilio del paziente che presso l’hospice Casa Vidas. In attesa che, nella primavera 2019, venga inaugurata Casa Sollievo Bimbi, la prima struttura pediatrica in Italia nata per fornire le cure palliative ai bambini afflitti da malattie incurabili. Uno sforzo reso possibile dai contributi da oltre 38mila donatori, grazie anche alle 29mila preferenze dei contribuenti al momento di destinare, nell’ambito della dichiarazione dei redditi, il 5 per mille. Ma anche un traguardo che accomuna Milano alle imprese delle grandi charity create dai tycoon d’oltreoceano, modello Bill e Melinda Gates Foundation.

Anche in Italia, insomma, si diffonde il no profit secondo il modello anglosassone?
In realtà le differenze culturali sono rilevanti. Gli anglosassoni partono dal principio, condiviso da chiunque faccia fortuna, che hai il dovere di restituire una parte di quello che hai ricevuto dalla società. Da noi prevale un’interpretazione più personale, meno strutturata in una forma univoca. Ma i numeri sono comunque impressionanti, stiamo parlando di un fenomeno che coinvolge più di sei milioni di persone, un esercito di volontari in crescita del 16 per cento circa secondo l’ultima rilevazione Istat, con un’incidenza sul Pil superiore al 6 per cento.

Sono adeguate le leggi che disciplinano il settore? Non sono ancora stati approvati tutti i decreti attuativi della riforma del terzo settore…
Penso che l’iter sia quasi terminato. Intanto, posso dire che ritengo sia stata un’ottima idea quella di affidare la destinazione del 5% mille alla libera scelta dei privati. In questo modo si obbliga l’individuo a prendere una decisione responsabile. Inoltre si valorizza un certo legame con il territorio. Va dato atto a Matteo Renzi di aver promosso una buona riforma del terzo settore, in grado di aumentare l’output del volontariato, che comunque ha sempre più bisogno di risorse per svolgere il ruolo di sussidiarietà rispetto alle risorse pubbliche che sono sempre meno sufficienti. Prendiamo il caso degli italiani, mica pochi, che muoiono senza aver designato un erede. Perché lo Stato non può essere il canale ideale per destinare queste risorse?

Verso quali iniziative?
Questi patrimoni potrebbero essere convogliati in una fondazione pubblica, in grado di coordinare ed ottimizzare i contributi privati in arrivo per promuovere i progetti del terzo settore, come previsto dall’imprenditore e filantropo Vincenzo Manes. Credo che sia importante mobilitare idee vecchie e nuove per dotare il terzo settore delle risorse necessarie per sviluppare tutto il suo potenziale. Penso che il suo ruolo sia fondamentale, soprattutto ora che, anche per le potenzialità offerte dalla tecnologia, si sta affermando il modello della sharing economy che si sposa benissimo con il concetto di sussidiarietà.

Mi può far un esempio di incentivo alla raccolta di capitali per il terzo settore?
Mi viene in mente la flat tax.

Cioè?
L’Italia, lo sappiamo, è un paese ammalato di contanti. Le cause del fenomeno sono tante, non necessariamente e non tutte criminali. Perché non pensare ad una grande sanatoria che consenta di fare emergere risorse oggi congelate? Naturalmente, resteranno gli obblighi penali. Ma è possibile un grande accordo. Diciamo che le posizioni potrebbero essere regolarizzate con un versamento del 10 per cento da destinare ad attività no profit.

Insomma, una sorta di decima laica. Stavolta il beneficio non finirebbe in tasca alla Chiesa, bensì allo Stato.
Per carità. È solo una mia idea.

Ma le strutture del Terzo settore sono all’altezza di sostenere responsabilità così impegnative?
Un tema cruciale è quello dell’accountability. Non basta voler e saper far del bene. Bisogna aver la consapevolezza che il sistema presenta richieste sempre più sofisticate in materia di sostenibilità. Occorre saper gestire le risorse all’insegna dell’efficienza senza vergognarsi se le attività si traducono in profitti da destinare al servizio del bene comune. Ormai le attività del no profit rispondono ai criteri dei reporting Esg, ovvero il rispetto dei parametri ambientali, sociali e di governance. È questa la nuova frontiera cui si devono adeguare le organizzazioni no profit.

Questo vale per una società più solidale. Ma, complice la crisi, si moltiplicano esempi e modelli di tutt’altro tipo.
Ma se guardo alla storia di Milano, basti pensare ai Martinitt o alle Stelline, prendo atto che le grandi istituzioni solidali meneghine sono nate nei momenti di maggior difficoltà sociale ed economica. Non credo che la metropoli abbia smarrito la capacità e la voglia di fare il bene.

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