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Perché l’ex re di Starbucks punta alla Casa Bianca

Howard Schultz, ex-amministratore delegato di Starbucks, ha lasciato trapelare che si candiderà alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti del 2020. A provocare la sua indignazione civile, per così dire, e a spingerlo in politica – per la terza volta, dato che aveva già sondato il terreno nel 2012 e nel 2016 – è stata una proposta della corrente socialisteggiante del Partito democratico, che vorrebbe aumentare le tasse ai super-ricchi utilizzando un sistema progressivo marginale: vedrebbe una tassa del 70 per cento sugli introiti superiori ai 10 milioni di dollari annui, e applicabile solo a quella parte di reddito che supera i 10 milioni di dollari.

Partorita dalla deputata 29enne Alexandra Ocasio-Cortez per finanziare, in parte, il progetto ambientalista battezzato Green New Deal, l’idea ha conquistato presto moltissimi militanti, una parte importante dell’opinione pubblica e costretto altri candidati progressisti alla Casa Bianca a confrontarsi col problema delle disparità di ricchezza e delle tasse inique negli Stati Uniti. Schultz, ammettendo in pratica di voler entrare in politica per difendere i suoi interessi e quelli dei suoi colleghi miliardari, ha annunciato di voler correre come indipendente: “Rispetto il Partito democratico”, ha spiegato in un’intervista a Cnbc, “ma non mi sento più di farne parte, perché non credo che le loro idee rappresentino la maggioranza degli americani. Non credo che vogliamo una tassa del 70 per cento”.

Diciamo subito che non è proprio così: un sondaggio recente, su circa 1.000 possessori di tessera elettorale, ha rilevato che 59 statunitensi su cento condividono la proposta di Ocasio-Cortez. In un altro, della conservatrice Fox News, il 70 per cento degli intervistati ha espresso la stessa opinione. Nel paese il sostegno all’idea di redistribuire più equamente le risorse è vivo, robusto, e non accenna a diminuire. Schultz però ha fatto capire che la sua campagna è soltanto abbozzata, che non ha nemmeno un’idea vaga sul running mate da scegliersi per l’occasione, e che per il momento inizierà con una sorta di tour nel paese per presentare la sua ultima autobiografia, e capire quanto è gradito al pubblico.

Sarà, ma nel frattempo, colui che è stato il capo di Starbucks dal 1986 al 2000 e poi dal 2008 al 2017, trasformando una piccola bottega di distributori hippie in una multinazionale globale si è beccato quasi soltanto contestazioni o insulti. In un incontro che si è tenuto a New York, già dopo pochi minuti dalla sua salita sul palco le guardie del corpo hanno dovuto rimuovere un ragazzo che lo ha preso a male parole. Quando lui ha spiegato di non sentirsi in colpa per essere un miliardario, di essere anzi cresciuto in una casa popolare di Brooklyn, il giornalista Franklin Leonard gli ha ricordato che proprio quelle case erano state finanziate, in parte, da miliardari che negli anni di Eisenhower (Schultz è nato nel 1953) pagavano una tassa marginale di ben il 91 per cento.

La proposta di aumentare le tasse sui fat cat, i “gatti grassi” dagli stipendi astronomici, in un momento in cui Donald Trump li ha già premiati con un cospicuo taglio delle imposte, ha tutte le carte in regola per diventare uno dei temi più caldi della campagna del 2020. Un’altra candidata dei Democratici, Elizabeth Warren, ha proposto una tassa del 2 per cento su chi guadagna più di 50 milioni di dollari in asset. L’ex candidato alle primarie democratiche del 2016 Bernie Sanders, e uno dei nomi più papabili per la prossima tornata, ha proposto di abbassare l’imponibile sui beni immobiliari dei miliardari e una tassa marginale del 77 per cento, così come funzionava negli anni Settanta. Negli ambienti politici c’è la sensazione, insomma, che il tema sia finalmente bene accetto, in un clima di anti-elitismo rampante, dove parola “socialismo” non è più tabù. Che siano diventati gli europei, sedotti sempre più da populisti autoritari che vogliono costruire stati etnicamente puri senza mettere in discussione i principi del liberismo globalizzato, i veri trumpiani?

Il punto è che prima di arrivare a una rivoluzione pauperista negli Stati Uniti (come sembrano temere pure al World Economic Forum di Davos, a leggere certe reazioni degli ospiti) o anche solo a una riforma timidamente egualitaria ne correrà. Per prima cosa bisogna vincerle, le elezioni, e la cosa che spaventa di più i Democratici, della discesa in campo di Schultz, è l’erosione potenziale di voti preziosi per sconfiggere Trump.

Ciò che teme il partito dell’Asinello è una situazione come quella del 1992, quando l’imprenditore Ross Perot si presentò col suo partito indipendente nella sfida tra il presidente allora in carica George Bush e Bill Clinton, racimolando ben il 19 per cento dei voti e favorendo il secondo. Certo, allora la vittoria arrise ai Democratici, ma la paura è che questa volta, dato che il presidente non avrà rivali interni mentre nessun candidato finora ufficiale dell’opposizione raggiunge la doppia cifra nei sondaggi, l’unico effetto potrebbe essere quello di dividere troppo il fronte anti-trumpiano.

Schultz non sembra scomporsi più di tanto. Dice che gli insulti e la derisione sui social non lo toccano, anche se ammette di essersi “messo in una posizione che, lo so, susciterà disprezzo, rabbia e distacco da parte degli amici, e da parte dei Democratici”. Promette che farà di tutto per sconfiggere l’attuale inquilino della Casa Bianca, perché ciò che gli sta a cuore sono le famiglie “che sono state lasciate indietro” e l’idea di “riportare dignità e onorabilità nello Studio Ovale”. “Non sono qui per vincere le primarie su Twitter”, spiega. Dal canto suo, Trump ha dismesso il nuovo rivale nel modo che gli è proprio, scrivendo che Schultz “non avrà il fegato” per candidarsi davvero, mentre l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, che a lungo era stato dato come possibile candidato indipendente, ha fatto sapere quattro giorni fa di voler rinunciare a questa idea, proprio per evitare di sottrarre voti ai Democratici: se correrà, lo farà con loro.

Howard Wolfson, un esperto politologo che lavora per Bloomberg, ha twittato poco dopo l’annuncio di Schultz: “Nel corso di molti anni, ho letto dati a sufficienza da sapere che chiunque corra per la presidenza da indipendente finirà col dividere il voto contrario al presidente in carica”. “La posta in gioco non potrebbe essere più alta. Non possiamo permetterci il rischio di un terzo incomodo che finisca per far rieleggere Trump”. L’ex consulente politico di Barack Obama e Matteo Renzi, Jim Messina, è stato ancora più duro: “Non può vincere… farebbe meglio a spendere i suoi soldi e il suo tempo facendo qualcosa che non danneggi il mondo”, mentre Philippe Reines, consigliere di Hillary Clinton, non ha usato mezzi termini: “Howard Schultz è un idiota… è ricco e arrogante – una di quelle persone che non riescono a vedere il mondo per quello che è”.

Ma i consiglieri di Howard Schultz – tra cui sorprendentemente c’è anche uno che ha lavorato per Obama – la pensano diversamente. Secondo loro bisogna guardare al fatto che, stando ai sondaggi di Gallup, il 39 per cento degli americani si identifica come indipendente, il 34 per cento come democratico e il 25 per cento come repubblicano. È al vasto segmento dei disimpegnati e disincantati che vorrebbe puntare l’ex re dei beveroni al caffé, e a detta del suo team una eventuale candidatura centrista succhierebbe voti a destra e a sinistra. Bisogna combattere l’alto “livello di tossicità, di vendetta” presente nella politica nazionale, dice Schultz, senza specificare esattamente a chi si rivolge, spiegando che tra un presidente come Trump e un Partito democratico egemonizzato dall’estrema sinistra si potrebbe aprire uno spazio politico notevole.

Anche se lui non si definisce così, in pratica è un “falco del deficit” – vale a dire uno che pone il bilancio equilibrato del governo tra le sue priorità assolute, tant’è che non ha fatto mistero di essere contrario alla sanità pubblica universale pensata da Obama o all’abolizione delle rette universitarie particolarmente esose; ha anzi paragonato spesso lo Stato americano a un’azienda, citando i 21.000 miliardi di dollari di debito pubblico come un macigno che affosserebbe qualsiasi multinazionale – una visione a dir poco ortodossa, e conformista, per i nostri standard attuali. Comunque, deciderà una volta e per tutte se candidarsi o no tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate, ma in ogni caso immagina già di finanziarsi la campagna tutto da solo, in modo da non dover perdere tempo con la complicata macchina della raccolta fondi.

Secondo il sito Axios, che ha sentito diversi dirigenti del Partito democratico sul campo, la sensazione prevalente è che Schultz sarà respinto, alla fine, dall’incredibile “ondata di disgusto e sdegno che gli si abbatterà addosso”. Il guaio principale del ragionamento di Schultz sembra quello che si potrebbe definire una sorta di autismo politico: in un momento in cui le iniquità sociali sono percepite più importanti che mai, in un momento in cui i ricchi non sono mai stati così ricchi, lui rischia di compromettere la campagna di chi vorrebbe raddrizzare le cose.

Tutto questo in un sistema elettorale decisamente antiquato e delicato come quello americano, dove bastano poche migliaia di voti in uno Stato a fare la differenza nella conta dei cosiddetti Grandi Elettori; con la possibilità di vedere ripetere il risultato surreale del 2016, dove un presidente è stato eletto nonostante abbia ricevuto oltre due milioni di voti in meno dell’avversario. Forse questo è il modo in cui Schultz pensa di ricattare gli egualitaristi, e di fargli ritrattarre le proposte più audaci in cambio della sua rinuncia. Oppure, senza volerlo, con la sua entrata in scena così bizzarra e maldestra, potrebbe offrire il miglior argomento per una ritorno in grande stile della lotta di classe in America.

 

 

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