Marco Coppola
Lifestyle

Il manager italiano del Beverly Hills Hotel di Los Angeles

 

A volte i sogni diventano realtà, soprattutto quando si investe molto spirito di sacrificio, dedizione, perseveranza e non ci si arrende mai. E’ successo a Marco Coppola, che nei suoi trent’anni ha realizzato quello che desiderava di più al mondo: lavorare al Beverly Hills Hotel di Los Angeles, da sempre un’icona del lusso, prediletto da celebrity di Hollywood e rock star, del passato e del presente, oltre che da uomini d’affari. E’ considerato uno dei più bei alberghi al mondo, tutto dipinto di rosa, con un palazzo principale e i suoi leggendari bungalow, immersi in un giardino lussureggiante con molte piante di banano che, con le loro larghe foglie verdi, hanno ispirato perfino i famosi murales in tema che si distinguono per svariati corridoi e muri dell’hotel.  Fondato nel 1912 da una ricca vedova, Margaret J. Anderson, e dal figlio Stanley S., l’hotel ora fa parte del gruppo Dorchester Collection. Storico e famoso è pure il ristorante, Polo Lounge, che prese il nome da una squadra di polo che vi veniva a celebrare i successi sportivi (e un’insalata è ancora dedicata a uno di loro, Neil McCarthy), e fu prediletto perfino da Humphrey Bogart e Marlene Dietrich, come da Frank Sinatra, Dean Martin, Lauren Bacall. Fred Astaire amava invece leggere il giornale presso la piscina, che ora vanta eleganti cabanas e un ristorante. Nel 1942 il produttore e milionario Howard Hughes, interpretato magistralmente da Leonardo Di Caprio nel film “The Aviator”, acquistò diversi bungalow e vi visse. Tra le sue eccentricità c’era quella di avere sandwich al roastbeef serviti nell’incavo di un albero… Che lui poi, nella sua eccentricità e tormentato da svariate paranoie, andava a prendere quando nessuno era presente. Altri ospiti importanti sono stati Grace Kelly e il Principe di Monaco, John Wayne, Henry Fonda, Marilyn Monroe, che soggiornò qui con Yves Montand durante le riprese del film “Let’s Make Love”, John Lennon e Yoko Ono, che passarono una settimana in un bungalow. Elizabeth Taylor trascorse nei bungalow sei delle sue otto lune di miele con i diversi mariti della sua vita, tra cui Richard Burton…

Seduto su un divano dell’hotel, Marco Coppola, nella luce brillante, tipica del sole locale, di quella città che sognava fin da quando era bambino, ricorda quali sono stati i passi e il percorso che l’hanno portato ad approdare in America e a distinguersi in un posto tanto esclusivo.

Marco Coppola
Marco Coppola

E’ italo-americano o italiano?

Sono italiano DOC! (Ride, n.d.r.) Nato e cresciuto a Roma, da genitori e nonni romani, con il desiderio e il sogno americano nel cuore da quando avevo tre anni.

Cosa bisogna fare per avere successo nel suo settore?

Serve sacrificio, forza di volontà e anche di certo casualità. E fortuna, quindi.

In America sente che al lavoro è attribuita un’importanza maggiore rispetto all’Italia?

Qui di certo non importa da dove vieni e che background hai, valutano quanto produci, e quello che sai fare.

La piscina del Beverly Hills Hotel (Courtesy Dorchester Collection)

Come ha fatto ad approdare qui?

A Roma frequentavo le scuole italiane la mattina e quelle americane e tedesche il pomeriggio, la sera e il weekend. Ho bellissimi ricordi sia della mia formazione tedesca al Goethe Institut, che del liceo linguistico a Roma che della Loloyla University Chicago. In principio ho “odiato” i miei genitori, perché devo confessare che non fu una scelta mia, ma adesso naturalmente sono loro molto grato e sento di doverli ringraziare ogni giorno per questa scelta. Non ho comunque la tipica formazione alberghiera. Ho studiato Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, anche se ho lasciato a quattro esami dalla laurea per iniziare a lavorare all’Hotel Eden di Roma. E’ stata quello la mia prima scuola, per tre anni, lavorando alla reception e come segretario di ricevimento cassa, ho avuto degli ottimi “maestri”. Poi ho deciso di trasferirmi all’Hotel Principe di Savoia a Milano, per crescere ancora di più e per provare qualcosa di diverso. Allora era il periodo dell’Expo, che è stato davvero un momento fantastico per la città…

Come mai questa passione per il mondo dell’ospitality?

Mi piaceva il rapporto con la clientela, da persona a persona. Per questo sono divenuto un manager addetto ai rapporti con gli ospiti, anche se adesso qui a Los Angeles mi hanno promosso da “guest relation manager” a “operations manager”. Mi occupo quindi anche di tutto l’ambiente dedicato all’ospite, pur non dimenticando il rapporto personale con il cliente, a cui continuo a tenere molto. Ma adesso le mie competenze si rivolgono all’esperienza totale dell’ospite, dalla prenotazione, al soggiorno a quando se ne va. Ci tengo che sia al centro dell’attenzione di tutti i dipendenti e il mio fine è che siano in grado di leggere nei suoi occhi quello di cui ha bisogno senza nemmeno parlare…

E’ un’ambizione molto alta quindi…

So che al Beverly Hills Hotel o in qualsiasi albergo di lusso non arrivano solo persone molto ricche, ma anche coloro che magari hanno risparmiato una vita, hanno fatto sacrifici per concedersi un weekend o una luna di miele o una vacanza. Voglio che tutti siano trattati allo stesso modo, e che il servizio sia impeccabile per quello che pagano. E’ questa per me la vera professionalità.

L’esterno del Bungalow prediletto dal produttore Howard Hughes (Courtesy Dorchester Collection)

Ha trovato problemi a farsi rispettare nell’ambiente competitivo americano come manager italiano?

No, tutti i miei dipendenti mi stanno dando molta soddisfazione.  Gli americani sono molto più aperti di quanto si creda, in Europa abbiamo una visione molto più chiusa. Loro sono più chiusi dal punto di vista personale talvolta, ma non nel campo lavorativo. Sono stato accettato da subito, conoscevo qualche collega dall’Italia, ma non i membri del mio team. Sono sempre molto disponibili, aperti alle critiche, perché servono per migliorare il tipo di lavoro che fanno e mi piace questo loro aspetto.  Non mi hanno mai fatto sentire uno straniero, ma piuttosto parte di una “grande famiglia”. Certo io nel modo di lavorare mi sono “americanizzato” al cento per cento!

In che senso?

Sono molto organizzato, ho orari flessibili sette giorni su sette, a volte arrivo presto e vado via presto, altre arrivo presto e finisco a sera tardi, altre arrivo tardi e me ne vado presto… Dipende dalla mole di lavoro, l’importante è essere produttivi e conseguire il risultato. Se noto, per esempio, che esiste qualche mancanza in un settore, dal più piccolo al più grande, cerco di organizzare subito un training in modo da colmarlo. E tutto il team mi supporta.

Sta lavorando a qualcosa in particolare adesso?

Abbiamo appena rinnovato e inaugurato, con il brand internazionale Champalimaud, due bungalow leggendari, il numero 1 e 3, ispirati da Marilyn Monroe e da Howard Hughes, con molti elementi delle loro esistenze personali. Ci teniamo in modo particolare, perché sono anche qualcosa di storico e di un programma di restauro di tutti i 21 bungalow che è già in atto da due anni. Il 5 era quello di Elizabeth Taylor, il 22 di Frank Sinatra, il 9, dedicato a Charlie Chaplin debutterà a luglio 2019. Abbiamo perfino ideato delle esperienze a tema, tra cui un “Marilyn Monroe Champagne Bath Bubble Experience”, un bagno allo champagne che riprende il film “Some Like It Hot”… O un menù Marilyn, con spaghetti “Joe DiMaggio” (il primo marito di lei, n.d.r.) con polpette di carne e il gelato “sundae”, che lei privilegiava. Marilyn, oltre che nel bungalow 1, visse nel 7 per periodi… Howard Hughes visse nel suo bungalow 3, un po’ “in and out”, con il bungalow 4 anche, per 30 anni. I colori e toni sono molto mascolini, con un cocktail Aviation e un set per provare a farselo anche da soli, una collezione di modelli di aeroplani e nel menù sono serviti i mini roast beef sandwich, che lui sempre ordinava.

Il Bungalow amato da Marilyn Monroe con la panchina su cui amava sedersi (Courtesy Dorchester Collection)

Ha avuto un mentore in questa sua carriera? Qualcuno da cui le sembra di aver imparato moltissimo?

In realtà, un italiano: il Signor Ezio Indiani, che è il direttore dell’Hotel Principe di Savoia di Milano, un vero gentleman e una persona molto etica… So che dopo aver frequentato l’istituto alberghiero di Gardone, partì per la Germania e per Santo Domingo e scalò davvero tutti i livelli del settore: dal lavapiatti, al cuoco, al cameriere, al receptionist, al settore contabile, al commerciale. Lo ammiro davvero moltissimo e fu lui a vedere qualcosa in me… Anche se non ho capito ancora cosa, perché quando glielo chiedo sorride e non risponde. Da lui come manager ho anche appreso che ti rendi conto a un certo punto quando il tuo team cresce bene e non ha più bisogno di te. E, allora, è il momento giusto per cambiare, perché più sei variabile, più alberghi vedi, per più persone o posizioni diverse lavori, maggiori sono le opportunità di crescere. Quando confidai al Signor Indiani che avrei voluto andare in America mi disse:  “Marco penso che ogni buon dipendente debba prendere il volo. Ti auguro il meglio per la tua vita e carriera”. Ho aspettato, quindi, il mio visto di lavoro dall’azienda e sono venuto qui. E da allora non ho mai smesso di amare questo posto.

Cosa consiglia ai giovani che vogliono intraprendere una carriera nel mondo alberghiero?

Di seguire la loro vocazione. Iniziando casualmente in questo settore ho compreso che l’ospitalità ed essere aperto all’ospite mi rendeva soddisfatto. Ci tenevo a vedere gli altri felici. Naturalmente non è come paragonare questo alla professione di un medico che cura un paziente… Forse la mia è una felicità più superflua, ma riguarda pur sempre la necessità di provvedere a un altro essere umano. Come ho detto non lavoro solo con le celebrity, ma con tanta gente comune che approda anche per la prima volta in questo mondo del lusso. E so cosa significhi, perché mia madre è cameriera ai piani in un hotel di tre stelle, mio padre è taxista… Vengo da una famiglia umile, e so bene cosa voglia dire fare sacrifici per permettersi certe cose. Sognavo “The Pink Palace”, come viene definito spesso questo hotel, fin da quando da ragazzino vi vedevo girati film di Hollywood. Mio nonno mi chiamava “l’americano”!

E come può descrivere invece adesso il suo stile di vita a Los Angeles? Per far comprendere a chi vorrebbe venirci come si vive qui…

Los Angeles è molto simile a Roma, una città del cinema, dell’intrattenimento, e ha un tempo stupendo tutto l’anno. Amo vivere qui. Abito a Sherman Oaks, in un appartamento con i miei due chihuahua, Dodi e Camilla. Per un mese abbiamo vissuto al bungalow 9 in hotel e di certo non ci dispiaceva… Poi abbiamo trovato casa. Adesso ho installato una telecamera, con una app grazie a cui li posso controllare ogni momento. Mi manda messaggi per avvertirmi perfino quando abbaiano. Cerchiamo di vivere spesso all’aria aperta. Amo fare hiking a Griffith Park e salire sulla collina dove si vede la scritta di Hollywood… Cerco di andarci quasi ogni weekend. Non sono una persona che ama il mare, ma adoro il Santa Monica Pier, il molo sui cui mi sono prefissato di provare tutti i ristoranti. E anche lì vado abbastanza spesso il weekend, per il resto sono impegnato in hotel durante tutta la settimana e anche di più se ci sono particolari eventi od ospiti speciali.

Pensa di restare a Los Angeles per tutta la vita?

Non avevo previsto di venire qui, ho deciso in un mese. Adesso, dopo oltre sei mesi, continuo a essere aperto a diverse possibilità. Non sono una di quelle persone che crede nel far fuggire i cervelli dall’Italia, ma per lo più nel farli migliorare nello stile lavorativo e a un certo punto, con la giusta opportunità, anche tornare. Spero che in Italia come in America si sviluppi sempre di più il principio della meritocrazia. Di certo non è facile lavorare all’estero, anch’io era da anni che ci provavo, ma consiglio con tutto il cuore di farlo se si può. Perché serve per aprire la mente.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .

Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .